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Telecamere “made in China”. Quali rischi per la sicurezza nazionale

Dahua e Hikvision, i cui prodotti sono stati vietati per ragioni di sicurezza nazionale da diversi Paesi occidentali ma anche bucati dall’intelligence russa prima di bombardare Kyiv, sono ancora largamente utilizzate nel nostro Paese. Basta farsi un giro fuori dal ministero della Difesa. Appunti per Meloni a Pechino

Basta farsi un giro attorno ai Palazzi di Giustizia delle città italiane o ai ministeri, anche quelli più sensibili come quello della Difesa. E si trovano. Sono le telecamere “made in China” prodotte da società quali Dahua e Hikvision. Basti pensare che proprio la prima è stata la società scelta nel 2021 da Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio, per i termoscanner a Palazzo Chigi.

Queste aziende sono state vietate per ragioni di sicurezza nazionale da diversi Paesi occidentali, grossomodo gli stessi che hanno agito contro i fornitori cinesi del 5G, in particolare Huawei e Zte. A preoccupare le autorità sono in particolare le leggi cinesi sulla sicurezza nazionale e sulla cybersicurezza, che impongono a cittadini e società di fornire supporto e assistenza a forze di polizia e agenzie di intelligence per fini non ben precisati di sicurezza nazionale. L’Italia, invece, prosegue sulla via della certificazione delle tecnologie, tramite l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, e senza alcun provvedimento di tipo rip&replace, ovvero rimozione e sostituzione, nei luoghi delle pubbliche amministrazioni.

Un anno fa Dahua e Hikvision (quest’ultima accusata anche di aver chiuso un occhio sull’utilizzo dei suoi prodotti contro gli uiguri nello Xinjiang) sono state bollate dall’Ucraina come “sponsor internazionali della guerra”. Secondo Kyiv, le due aziende fornirebbero alla Russia materiali dual use come droni e termocamere, armi anti-drone. A differenza della maggior parte delle sanzioni, la designazione è “solo reputazionale” e non ha “alcuna conseguenza legale”, aveva spiegato il governo ucraino. L’obiettivo era mettere pressione sulle aziende affinché interrompano le loro operazioni in Russia che, altro elemento evidenziato dalle autorità di Kyiv, contribuirebbero al bilancio russo avendo sfruttato l’uscita dei fornitori occidentali alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022.

A gennaio, invece, dopo un raid russo con oltre 300 missili e 200 droni che ha ucciso diverse persone a Kharkiv e Kyiv, l’intelligence ucraina aveva annunciato di aver scoperto che due “telecamere di sorveglianza online sono state violate dai servizi segreti russi per spiare le forze di difesa della capitale”. Le telecamere “trasmettevano il lavoro delle difese aeree” ucraine e di altre infrastrutture, e “con l’aiuto di queste telecamere” la Russia “ha raccolto dati per preparare e regolare gli attacchi su Kyiv”. Un funzionario ha successivamente confermato a Schemes, il braccio investigativo di Radio Free Europe/Radio Free Liberty, che i dispositivi erano quelli prodotti da Hikvision. È solo un esempio dei rischi posti dai prodotti cinesi di telecamere all’Ucraina sotto attacco russo.

Al rischio posto dalle leggi cinesi si aggiunge, dunque, il ruolo, pur quanto passivo, di queste aziende nella guerra di Vladimir Putin in Ucraina. Sembrano esserci tutti gli ingredienti per un intervento del governo italiano. Non mancano, però, le resistenze. Sono molti, nel governo e nelle burocrazie, a spingere per una linea morbida verso la Cina dicendo a Giorgia Meloni, presidente del Consiglio attesa a fine mese a Pechino da Xi Jinping, che il mancato rinnovo del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della Seta, è sufficiente.

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