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Tre domande sul welfare

L’impianto formale dell’attuale modello di welfare, costruito all’inizio del ‘900, poggiava su un’idea sostanzialmente assicurativa; si volevano rassicurare le persone, mettendole al riparo dagli eventi. Inoltre, si avevano in mente piccoli pezzi di popolazione. Semplificando: si pensava che su dieci persone, a otto sarebbe andato tutto bene, mentre si sarebbe dovuto prestare assistenza alle due restanti. Questo perché semplicemente si viveva molto meno, il concetto di democrazia è venuto maturando un po’ alla volta, così come il concetto di diritti e il rapporto con i bisogni. Così ci siamo trovati alla fine dello scorso secolo con una pratica del welfare che era insostenibile rispetto alla sua visione originaria. Era insostenibile l’idea che qualcuno potesse assicurare tutti.
 
Prendiamo ad esempio il sistema sanitario. Quando sono state pensate le Asl (anni ‘70), si credeva che il cittadino ne avrebbe usufruito poche volte nel corso dell’anno. Oggi le persone hanno un rapporto con la sanità quasi quotidiano. Inoltre, non ha retto un altro passaggio. Il fenomeno del welfare, pensato per la popolazione tutta, con un’idea comunitaria della società, si è scontrato con una società sempre più individualista. I diritti sono diventati via via individuali e soggettivi, rendendo difficile stabilirne una gerarchia. Bisogna essere coscienti che è finita la stagione dell’uguaglianza tra bisogno e diritto. Per rendere sostenibile il welfare, occorre superare anche da un punto di vista culturale questo binomio. Il welfare è sempre stato pensato solo come un’area di costo. Il sistema produttivo, incrementando il Pil, permette allo Stato, attraverso la tassazione, di ridistribuire una parte consistente delle risorse attraverso pensioni e servizi.
 
È necessario cominciare a pensare il welfare come un creatore di ricchezza, perché è un modello di innovazione sociale, generatore di legami, non un burocratico erogatore di prestazioni. Così si presentano tre questioni a cui provare a dare alcune possibili risposte. La prima: come facciamo a contenere i bisogni e a fare in modo che i bisogni abbiano una loro gerarchia legittima e che siano riconosciuti tali dalle persone? La seconda: come facciamo a spostare sul versante della produzione (costi e ricavi) il welfare, e non sul versante del solo costo? La terza: come immaginiamo di integrare la vecchia idea di welfare con una nuova (e antica) idea di beni comuni?
 
La risposta a questi tre quesiti è ciò che ne permetterà la sostenibilità. Per dare evidenza empirica a ciò che abbiamo accennato, facciamo l’esempio del Comune di Milano. Il Comune, che negli ultimi 10 anni ha costantemente speso di più per il welfare, è arrivato ad investire 540 milioni nel 2010. Lo scorso anno sono stati registrati nel capoluogo lombardo 58mila lavoratori domiciliari immigrati. È legittimo ipotizzare che di questi, la metà siano badanti; 29mila badanti per circa mille euro al mese pro-capite, fanno 348 milioni di euro all’anno. Quindi è cresciuta la spesa pubblica e quella diretta delle famiglie. A questo aggiungiamo i 200 milioni di euro che le famiglie di Milano hanno speso per l’Rsa andando ad integrare la retta della Regione. Così a Milano si è arrivati a spendere un miliardo di euro per servizi di welfare. Le persone stanno meglio? No.
 
Riprendo le tre questioni sollevate in precedenza. La proposta è destatalizzare socializzando, non privatizzando. Questo per preservare il pubblico. “Pubblico” è una componente della persona che è sia singolare sia plurale, è in se stessa privata e pubblica; non devono esserci entità che hanno il diritto di possesso del luogo del pubblico. Per destatalizzare socializzando occorre riprendere in maniera massiccia l’idea e il valore mutualistico e cooperativo. Il sistema mutualistico è l’autogoverno dei bisogni e la capacità distributiva della responsabilità all’interno di un gruppo. Forme mutualistiche, le uniche in grado di autogovernare l’esplosione dei bisogni e dar loro una gerarchia. Non c’è un dio laico, lo Stato, che decide che una cosa venga prima di un’altra. Si deve procedere in questo modo, altrimenti si rischia quello che sta accadendo a Milano. Di quei 348 milioni, buona parte vanno all’estero in rimesse nei Paesi delle badanti, togliendo risorse all’economia locale: scenario inimmaginabile per chi aveva pensato il welfare.
 
Dobbiamo aggiungere che il nostro legislatore è stato sprovveduto nell’aver obbligato le famiglie a diventare delle piccole imprese che assumono la propria badante. Così abbiamo prodotto in Italia circa un milione di piccole imprese familiari. Il secondo passaggio si riferisce al tema dei beni comuni. Non è più possibile immaginare questo nuovo welfare separato da un rinnovato impegno educativo. Il problema del welfare ha alle spalle un problema di consapevolezza della vita e di responsabilità nei confronti della vita; se vogliamo ricreare situazioni comunitarie dovremo avere situazioni educative comunitarie. Situazioni astratte e generiche non sono in grado di generare responsabilità. Qui c’è tutto il tema dei beni comuni, dall’acqua, ai beni culturali, alla scuola, alla salute, ecc. Il problema è che non c’è nessun Terzo settore che si sta candidando a tutto questo.
 
Il Terzo settore resta schiavo del rapporto con la politica e di chi gli copre l’80% dei costi di bilancio. Il tema dei beni comuni, che per me sono pubblici nell’accezione che devono essere accessibili ed universali come tendenza, è un grande tema per l’impresa sociale ed è un grande tema sul quale fare un ragionamento di attrazione di capitale. Non si immagini che questa sia una questione che riguardi la sola categoria dei “poveri”. Infine credo che la vicenda del welfare, dei beni comuni sia la grande vicenda dell’innovazione culturale e industriale italiana. Non siamo in grado di fare le competizioni sulle tecnologie. Possiamo essere molto competitivi ritornando a riprendere in mano questi dati fondanti della nostra civiltà e ricordandoci che il welfare in Italia viene prima di Bismarck, e prima di Beveridge. Questa è responsabilità politica ed economica. Crea un sentimento nazionale e consolida un possibile modello italiano nel mondo.


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