Skip to main content

Così gli Houthi mettono nei guai Suez e marginalizzano il Mediterraneo

Il problema degli Houthi non sono tanto i droni su Tel Aviv ma i dati di Suez. Gli attacchi dallo Yemen stanno marginalizzando il Mediterraneo, per questo occorre agire in fretta per evitare che i traffici nel bacino vengano esclusi dalle rotte geoeconomiche globali

La notizia che un drone esplosivo lanciato dallo Yemen abbia colpito, l’altro ieri, Tel Aviv, e ucciso uno sfortunato esule bielorusso che si era rifugiato nello stato ebraico subito dopo l’invasione russa su larga scala dell’Ucraina, ha attirato le attenzioni mainstream molto più di un’altra ben più importante: Suez è nei guai, e adesso lo sanciscono anche i numeri dei proventi di transito. Gli Houthi hanno rivendicato di aver preso di mira Israele (e forse il consolato americano) e questa in effetti è la cosa meno interessante di quello che l’attacco a Tel Aviv racconta: più o meno altre 200 volte gli yemeniti ci hanno provato, e con scarsi risultati (e stavolta gli è andata bene per un errore umano, mentre di solito gli attacchi vengono sempre intercettati).

Ma, come accennato, il problema è che questo a Tel Aviv come gli altri avvenuti negli stessi giorni nel martoriato Indo Mediterraneo, ci ricordano che la minaccia degli Houthi è ancora più che concreta e ha già prodotto la riduzione di un quarto delle entrate che l’Egitto percepisce per i passaggi sul Canale di Suez. Dopo che i miliziani yemeniti hanno iniziato a colpire le navi commerciali che solcano il corridoio Suez-Bab el Mandeb, estendendo i loro attacchi anche al Mar Arabico e dunque all’Oceano Indiano occidentale, Il Cairo ha perso 2,2 miliardi di dollari di entrate.

Nei giorni del drone su Tel Aviv, le dichiarazioni quantitative fornite da Osama Rabie, hanno preso meno spazio sui media, ma il capo dell’autorità egiziana che gestisce il canale ha annunciato che gli introiti dei transiti nel primo anno fiscale di destabilizzazione sono scesi a 7,2 milioni di dollari, rispetto ai 9,4 dell’anno precedente – e 5763 navi hanno scelto di evitare il passaggio per Suez e tornare a prima del 1869 circumnavigando l’Africa. Questo significa che le casse depauperate egiziane avranno meno introiti diretti e di indotto, ma chiaramente la questione ha anche una dimensione di ordine superiore.

Il problema è che gli attacchi continuano, dicevamo. Anzi: a giugno, uno dei mesi con più azioni lanciate dagli Houthi (tra missili e droni di varia natura, compreso l’azione record di distanza contro la Maersk Sentosa, in pieno Oceano Indiano), la Defense Intelligence Agency statunitense ha prodotto un report indicando che gli Houthi hanno messo in pericolo gli equipaggi, danneggiato la sicurezza regionale, ostacolato gli sforzi internazionali di soccorso umanitario, minacciato la libertà di navigazione e aumentato i costi e i tempi di transito per le spedizioni commerciali.

Tutto noto, ma anche in questo caso il peso quantitativo è ciò che conta. Inoltre, per ovvie ragioni di obiettivi e interessi, l’analisi dell’intelligence militare americana non valuta l’elemento cruciale per una serie di Paesi regionali. Se infatti l’Egitto perde entrate dirette dal mancato transito, altri Paesi come l’Italia subiscono effetti geoeconomici più indiretti ma altrettanto preoccupanti. Le navi che non passano da Suez scelgono infatti di non sfruttare la rotta più lineare e rapida per l’Europa, per legittime ragioni di sicurezza. Ma nel farlo creano una marginalizzazione del Mediterraneo. Quando circumnavigano l’Africa, quelle navi infatti non rientrano per Gibilterra, ma accedono direttamente ai porti nord-europei. C’è stato un aumento dei costi, ma in generale il mercato si è adattato; c’è stato un assestamento dei prezzi delle spedizioni e una sorta di accomodamento pragmatico è previsto per il futuro nonostante la fluidità del contesto. Se però il trend verrà confermato, il rischio — non solo commerciale ma geopolitico — è trasformare il bacino mediterraneo in una serie di rotte vicinali, che servono il mercato locale e non quello intercontinentale Europa-Asia.

Le compagnie commerciali si adattano, prendono scelte per ragioni di un interesse guidato dal business chiaramente. L’aspetto geopolitico è laterale, e spetta ai governi occuparsene. Le missioni in corso – “Aspides” dell’Unione europea e “Prosperity Guardian” più “Poseidon Archer” a guida statunitense – sembrano non essere state efficaci per ora. Gli Houthi continuano a sostenere che i loro attacchi prendono di mira navi legate a Israele, agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna, come parte del sostegno a Hamas nella sua guerra contro Israele. Tuttavia, molte delle imbarcazioni attaccate hanno poca o nessuna connessione con la guerra, comprese alcune destinate all’Iran, che sostiene gli Houthi. (Nota: gli yemeniti hanno rivendicato di aver colpito Tel Aviv con un drone “Yaffa” totalmente fabbricato nel Paese, ma in realtà dovrebbe essere un adattamento di un Samad-3, uno dei vari pezzi forniti dai Pasdaran alla milizia dell’Asse del Male).

La realtà è che si è creato un complicatissimo precedente: un gruppo armato locale, non statuale e interessato a ottenere un potere parziale sullo Yemen (consapevole che non potrà mai essere in grado di amministrare l’intero Paese, anche ammesso per assurdo che gli venisse concesso, cosa che Riad non permetterà) sta tenendo sotto scacco la geoeconomia globale. “È sostenibile?” si chiede una fonte militare europea che fornisce background per questo articolo. La domanda è ovviamente retorica. Mentre il problema cresce di dimensione settimana dopo settimana e va incontro a successivi potenziali scossoni e complicazioni. Un esempio, ampliando il quadro: nei giorni scorsi è tornata in Virginia la “Ike”, la portaerei Dwight Eisenhower che con il suo gruppo da battaglia è stata impegnata nell’area indo-mediterranea per la “battaglia navale più intensa che la U.S. Navy ha affrontato dalla Seconda guerra mondiale”, per dirla come l’Associated Press. Verrà sostituita dalla Theodore Roosevelt in un movimento di assetti tra Indo Pacifico e Euro Mediterraneo non usuale (come raccontavamo su Formiche.net).

Davanti a queste manovre, torna la domanda: “È sostenibile?”. E soprattutto, per quanto tempo ancora? Continuando ad articolare l’esempio: gli Stati Uniti, con i britannici, a differenza degli europei si sono impegnati anche in operazione cinetiche offensive per colpire gli assetti degli yemeniti. Una forma di azione anche preventiva: una volta individuati i vari lanciatori, colpirli serve per evitare che ripetano gli attacchi. Gli europei abbattono i vettori d’attacco in funzione prettamente difensiva, come ripetono sempre i politici dei Paesi direttamente coinvolti in Aspides. Se non funzionano a sufficienza nemmeno gli attacchi angloamericani, figurarsi se questo tipo di azioni “difensiva, mai offensiva” possono essere sufficienti nel produrre deterrenza. E il problema che si sta creando è che mentre gli Houthi non si fermano (e nemmeno i dante causa, ammesso che ne siano completamente in controllo), quella marginalizzazione del Mediterraneo continua a procedere.

Tutto questo va incontro a un incrocio di dinamiche che è il punto di caduta di questo lungo esempio, e qui sta la complicazione: fra qualche mese alla Casa Bianca potrebbe arrivare Donald Trump, che ha già dimostrato di concedere al Mediterraneo attenzioni relative (per quanto gli interessi dei rivali sul bacino possono riportare nella regione i riflettori degli apparati come Pentagono e State) e di non credere troppo negli impegni militari fuori dei propri confini nell’ottica dell’America First. Trump ha già fatto capire che per essere aiutati dagli americani servirà “aiutarsi” (cfr Taiwan) ossia aumentare i propri impegni. E questo potrebbe essere anche una richiesta avanzata da un eventuale bis di Joe Biden – perché sul limitare l’uso delle forze armate parti delle due iper-polarizzate constituency si incontrano come in pochi altri temi. D’altronde, l’interesse generale statunitense è nel proteggere la geoeconomia che lega Europa e Asia, non necessariamente connessa al Mediterraneo – come dimostrano gli adattamenti alle deviazioni.

E dunque, servirà che la nuova Commissione europea del secondo mandato di Ursula von der Leyen prenda posizioni più forti? La crisi nell’Indo Mediterraneo sarà un primo, importante test? La gestione del dossier Houthi sarà probabilmente uno dei compiti che il commissario per il Mediterraneo si troverà a svolgere, ammesso che Bruxelles abbia realmente interesse a mantenere il Mediterraneo come un crocevia centrale delle rotte globali. Differentemente, più che un commissario si rischia di aver un vigile di quartiere, costretto però a gestire una regione caoticizzata ulteriormente. Perché la perdita della centralità potrebbe comportare anche questo nel medio termine: maggiori destabilizzazioni, anche operate dagli attori esterni rivali, che potrebbero approfittare di minore attenzione e attività di chi per ora ha cercato di tutelare l’ordine basato sulle regole. Quello che proprio nell’Indo Mediterraneo è stato messo sottosopra dall’azione congiunta di un gruppo non-statale armato dall’Iran. Ossia da uno degli attori dell’asse revisionista – quello che Fiona Hill, ex consigliere dell’amministrazione Trump e attualmente in forza al nuovo governo laburista britannico, definisce il “deadly quartet” (Cina, Russia, Iran e Corea del Nord). È più che un campanello di allarme anche per la Nato e per il nuovo rappresentante speciale per il vicinato meridionale.

×

Iscriviti alla newsletter