Skip to main content

Tutti gli scogli che dovrà affrontare Kamala Harris. L’analisi di Graziosi

Nonostante lo sfoggio di unità registratosi negli ultimi giorni, il Partito Democratico resta segnato da profonde fratture interne a livello elettorale, parlamentare e finanche di establishment. Questo non vuol dire, attenzione, che la vicepresidente sia spacciata ancor prima di ricevere la nomination. Significa semmai che l’euforia di questi giorni non tiene conto di alcuni nodi strutturali. Nodi che la Harris dovrà urgentemente risolvere, se vuole realmente arrivare alla presidenza degli Stati Uniti

È sempre più probabile che Kamala Harris sarà la candidata sostitutiva di Joe Biden alle elezioni di novembre. Un numero assai consistente di delegati ha già annunciato di voler votare per lei alla Convention di agosto, mentre alcuni big del Partito Democratico (dai Clinton a Nancy Pelosi, passando per lo stesso presidente americano) le hanno dato l’endorsement. Inoltre, qualora fosse lei la candidata, avrebbe meno difficoltà a disporre dei fondi raccolti dalla campagna presidenziale di Biden. Insomma, salvo sorprese, sarà quasi certamente la Harris a guidare l’Asinello alle prossime presidenziali. Ciò non significa però che la strada per lei sia in discesa.

Premettiamo subito che i giochi non sono ancora fatti e che la partita resta, al momento, aperta. Il punto è che sono numerosi gli scogli che la Harris dovrà superare, se vuole vincere le elezioni. Innanzitutto va ricordato che, come vicepresidente, la diretta interessata è sempre stata piuttosto impopolare. Al 23 luglio scorso, l’autorevole sito FiveThirtyEight attribuiva alla Harris un grado di disapprovazione del suo operato pari al 51,4%. È pur vero che un recentissimo sondaggio Ipsos dà la vicepresidente avanti a Donald Trump di due punti a livello nazionale. Tuttavia altre rilevazioni considerano favorito il candidato repubblicano. Inoltre bisognerà aspettare che i sondaggi testino la Harris negli Stati chiave (soprattutto Michigan, Pennsylvania e Wisconsin).

Il punto è che, come vicepresidente, la probabile candidata dem si è rivelata piuttosto impalpabile. Ricevuta la delega sull’immigrazione da Biden nel marzo 2021, non è riuscita a gestire efficacemente questo dossier. Inoltre, è stata scarsamente incisiva anche sulle questioni di politica estera. Non solo. A novembre 2021, la Cnn rivelò che la Harris risultava impopolare e isolata in seno alla stessa Casa Bianca. È forse anche per questo che, almeno al momento, la diretta interessata punta a far leva più sulla sua carriera di procuratrice distrettuale che sui suoi risultati da vicepresidente.

Venendo poi al piano squisitamente elettorale, i nodi che la Harris dovrà affrontare sono due. In primo luogo, deve porsi il problema di come accattivarsi le simpatie dei colletti blu della Rust Belt: una quota elettorale a cui Trump sta puntando da mesi. Non a caso, il tycoon ha scelto come proprio running mate il senatore dell’Ohio JD Vance, che è un nome di richiamo per gli operai di Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. La Harris, su questo fronte, è maggiormente in difficoltà, essendo rappresentante di una sinistra liberal che trova storicamente la sua base di consenso tra i ceti cittadini benestanti di California e New York. Non a caso, durante la campagna elettorale del 2020, nell’allora ticket dem era Biden a occuparsi principalmente di rivolgersi alla working class. Per far fronte a questo problema, è possibile che la vicepresidente sceglierà come proprio vice un governatore della Rust Belt: al momento, il nome più gettonato è quello di Josh Shapiro, che guida la Pennsylvania.

Oggettivamente l’eventuale scelta di Shapiro potrebbe rivelarsi efficace per dare del filo da torcere a Trump. Tuttavia, se optasse per lui, la Harris si ritroverebbe con un altro scoglio: quello della sinistra filopalestinese. Shapiro è infatti uno strenuo sostenitore di Israele, mentre da mesi il Partito Democratico americano è sempre più spaccato sulla crisi di Gaza. Ricordiamo che, durante le primarie, una parte della sinistra dem aveva lanciato, in alcuni Stati chiave come il Michigan, delle campagne di boicottaggio contro la ricandidatura di Biden, accusato di essere troppo vicino alle posizioni dello Stato ebraico. La domanda allora è lecita: come gestirà la Harris questa situazione? Per ora, ha scelto di non presenziare al discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso, rendendo inoltre noto di voler incontrare il premier israeliano soltanto in forma privata. Un equilibrismo ambiguo, che rischia di scontentare tutte le varie galassie dem.

Nonostante lo sfoggio di unità registratosi negli ultimi giorni, il Partito Democratico resta d’altronde segnato da profonde fratture interne a livello elettorale, parlamentare e finanche di establishment (il silenzio di Barack Obama sull’eventuale candidatura della Harris è, da questo punto di vista, particolarmente eloquente). Questo non vuol dire, attenzione, che la vicepresidente sia spacciata ancor prima di ricevere la nomination. Significa semmai che l’euforia di questi giorni non tiene conto di alcuni nodi strutturali. Nodi che la Harris dovrà urgentemente risolvere, se vuole realmente arrivare alla presidenza degli Stati Uniti.

×

Iscriviti alla newsletter