Tutto sommato nelle poco apprezzabili monarchie del Medio Oriente sono in atto importantissimi programmi di dialogo interreligioso che sono il frutto del disastro dell’11 settembre. È un frutto da tutelare, difendere, ma che appare incompatibile con regimi che rimangono autocratici e, ancora oggi, cleptocratici. L’Occidente se vuole curare i popoli vicini è meglio che li guardi in faccia. La riflessione di Riccardo Cristiano
Se noi sapessimo considerare la storia come una stazione dove i treni passano una volta e difficilmente ritornano, ci sapremmo rendere conto della gravità di arrivare in ritardo o di non arrivare proprio. Sono tanti i treni che sono passasti, ma per brevità vorrei partire da quello che oggi nessuno ricorda, e che io chiamo il treno Sadat. Ucciso dai fondamentalisti islamisti, Sadat era pronto a cambiare la storia. La sua pace sarà stata provvisoria, interlocutoria, ma chiaramente avviava un processo, con un interlocutore non facile, l’israeliano Bégin. Oggi Sadat è sparito anche dalle cronache, non il suo assassino, Istanbuli, intestatario di un viale a Teheran.
Gli arabi che hanno ritenuto di espellere l’Egitto, e Sadat, dalla Lega Araba hanno condannato i palestinesi a una dura diaspora senza speranza. Finché la storia non ha offerto al mondo nuovi treni, nuovi imperdibili appuntamenti. Il primo treno è passato proprio a Teheran, quando i giovani dell’onda verde hanno contestato frontalmente il regime khomeinista, che aveva con i brogli riportato alla presidenza della Repubblica Islamica il falco Ahmadinejad. Sono stati lasciati al massacro, con i loro candidati che risultavano a tutti come i veri vincenti, a partire dal candidato alla presidenza Mir Hossein Musavi, da allora relegato agli arresti domiciliari. L’amministrazione statunitense, con il sostegno di molti, ha preferito trattare con il regime, che nel frattempo si era affidato alle cure del “moderato” Rowhani. Ne è scaturito l’accordo sul nucleare, fiore all’occhiello dell’amministrazione Obama, che l’onda verde ha sentito come il proprio “de profundis”.
Poi è arrivato il 2011 arabo, al quale Obama ha tentato di non voltare le spalle. Qui nessuno può rimproverare al Presidente degli Stati Uniti l’inadeguatezza dell’interlocutore, l’egiziano Morsi. Ma l’onda della primavera araba non era Morsi, che se ne è impossessato senza esprimerla. E infatti la primavera ha continuato a imperversare per tutto il mondo arabo, dalla Tunisia all’Egitto, dallo Yemen alla Siria, dal Libano all’Iraq. Questa volta sono state le corone arabe a voltargli le spalle, terrorizzate dalla democrazia. Nessuno le ha invitate a più miti consigli da quell’Occidente che si ritiene intestatario dei sani principi della democrazia e della libertà.
Oggi è difficile dire che i popoli islamici non abbiano chiesto all’Occidente di riconoscerli interlocutori di pace: si può dire però che non siano stati ascoltati, tantomeno capiti. I regimi arabi hanno giocato contro di loro la solita carta del terrorismo, da loro foraggiato a piene mani per nascondersi dietro di loro. Basti per tutti il caso siriano: non è forse certificato che Assad chiamò in Siria tutti i fanatici del mondo per poi mandarli in Iraq a impantanare i Marines che avrebbero avuto nella sua Siria il famoso next-step? Certo, la minaccia islamista è autoprodotta, ma il fallimento arabo, che non ha saputo condividere con i suoi “sudditi” i dividendi della decolonizzazione, va tutto imputato ai “cari regimi”, che in pochi anni hanno trasformato i campus egiziani (per citare solo i più importanti) da marxisteggianti a islamisti. A quel tempo Nasser poteva permettersi di sbeffeggiare i leader dei Fratelli Musulmani perché volevano imporre alle donne il velo. Rise tutta l’Università del Cairo.
Oggi i prezzi di tutti questi appuntamenti con la storia presentano il loro drammatico conto. È l’Iran la potenza emergente sulle spoglie di regimi arabi devastati da leadership corrotte e violente: Iraq, Siria, Libano, Yemen, sono tutti Stati falliti che la piovra iraniana tiene nel proprio cerchio per avere circuiti finanziari funzionanti per aggirare le sanzioni internazionali. Non sarebbe stato preferibile vedere la storia, non bucare gli appuntamenti? Ricostruire gli Stati è di tutta evidenza la vera priorità per sconfiggere le milizie khomeiniste. Chi lo fa?
Le corone dei petromonarchi si arroccano in una difesa che oramai passa da altri versanti, più concilianti: la Cina, la Russia, sono pronte ad abbracciare questi Paesi che fondano la loro politica sulla conversione economica, che rimane però saldamente basata sul petrolio. Ora il petrolio per loro non è più una ricchezza da usare per sfruttare la rendita investendola nelle nostre economie affluenti: oggi quei soldi servono a costruire economie nazionali basate sull’intrattenimento, l’immagine, il terziario, ma i dividendi per la popolazione ci sono solo in termine di svago.
Fare i conti con il nuovo Medio Oriente a mio avviso richiede di riconoscere i popoli, di evitare di non presentarsi ai prossimi appuntamenti che ci attendono nella stazione della storia per la presunzione di essere il bene. Tutto sommato nelle poco apprezzabili monarchie sono in atto importantissimi programmi di dialogo interreligioso che sono il frutto del disastro dell’11 settembre. È un frutto da tutelare, difendere, ma che appare incompatibile con regimi che rimangono autocratici e, ancora oggi, cleptocratici. L’Occidente se vuole curare i popoli vicini è meglio che li guardi in faccia.