Una settimana di super impegno americano nell’Indo Pacifico. Incontri, annunci e una maxi esercitazione. La Cina risponde stizzita
Vertice dell’Asean in Laos, con tanto di incontro tra Antony Blinken e Wang Yi; ministeriale 2+2 a Tokyo, con tanto di lancio di un nuovo comando con cui il Pentagono gestirà il mostruoso schieramento in Giappone; vertice tra ministri della Difesa insieme a giapponesi e sudcoreani, perché è fondamentale tenere insieme i due migliori alleati asiatici (un tempo storicamente divisi, ora in equilibrio reciproco grazie ai “Camp David Principles” siglati lo scorso anno); incontro tra i ministri degli Esteri del Quad, con Australia e India che per ragioni diverse devono essere parte del sistema americano-centrico nell’Indo Pacifico; Rimpac24, perché le capacità di proiezione militare in questo mondo disordinato attuale contano eccome.
Gli Stati Uniti hanno mosso un combinato disposto formidabile in questi giorni, dimostrando eccezionalità diplomatica, economica (l’accordo con il Giappone ha per esempio come obiettivo nascosto quello di allargare la base dell’industria della difesa occidentale al mondo nipponico, non di poco interesse per l’Italia che condivide con Tokyo il maxi impegno del Gcap), militare. L’esercitazione Rimpac24, continuando con gli esempi, è un capolavoro di interoperabilità con un’eccezione straordinaria che non è sfuggita a chi segue certe dinamiche: il 19 luglio un bombardiere stealth B-2 ha colpito una nave d’assalto anfibia dismessa con una bomba guidata; il test, soprannominato dalla US Air Force “QuickSink” come altro precedenti, si è verificato il 19 luglio, quando un B-2 ha partecipato all’affondamento della USS Tarawa, che ha le dimensioni di una piccola portaerei.
Il termine “interoperabilità” in questi giorni è spesso ripetuto dagli addetti ai lavori, anche dagli italiani che raccontano di Rimpac24 (a Honolulu, teatro delle manovre e headquarter del Comandi Indo Pacifico del Pentagono, c’era anche Nave Montecuccoli). Ma interoperabilità sta diventando anche un tema di carattere politico. E la volontà di strutturare il comando giapponese ne è testimonianza tanto quanto quella di continuare a implementare il Quad.
L’obiettivo è creare un fronte unito davanti a quello che vengono sempre più spesso indicati come “deadly quartet”, definizione che l’ex funzionaria dell’amministrazione Trump (ora in forza la governo laburista inglese) Fiona Hill usa per indicare Cina, Russia, Corea del Nord e Iran — quintum (non) datur, il Venezuela di Nicolas Maduro.
È fisiologica la reazione di Pechino, giocata anche in anticipo. Un commento uscito sul Global Times il 27 giugno, il giorno in cui Rimpac è iniziato, dice che “l’unico paese considerato ‘nemico’ dagli Stati Uniti che gestisce una nave d’assalto anfibia da 40.000 tonnellate nella regione Asia-Pacifico è la Cina”. Tradotto: durante Rimpac (a cui una volta partecipava anche la Cina, ma ora il Pentagono non la invita più) si è simulato l’affondamento di una nave di Pechino. La Marina cinese in effetti ha tre navi d’assalto anfibie Type 075, con circa 36.000 tonnellate di dislocamento, in servizio (una quarta è in arrivo, e le Type 076, classe di successione, sono in costruzione).
Il Global Times ha anche precedentemente citato Song Zhongping, un esperto militare cinese e commentatore televisivo, dicendo che i Type 075 potrebbero essere chiamati in azione nello Stretto di Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale se la situazione lo imponesse. “La scelta della USS Tarawa come bersaglio da affondare riflette la preoccupazione degli Stati Uniti e dei suoi alleati per lo sviluppo e la forza del potere marittimo cinese, in particolare per quanto riguarda la deterrenza militare della terraferma sull’isola di Taiwan”, dice Song.
Sebbene una nave così obsoleta non può essere paragonata ai moderni assetti militari cinesi, è chiaro che si è trattato di un test tanto tecnico quanto comunicativo. Un messaggio alla stregua di quello lanciato con il nuovo comando in Giappone. Anche qui la Cina contesta, sebbene è importante ricordare anche che certe operazioni politico-militari sono una risposta a una sempre più strutturata assertività espansionistica ordinata dal Partito/Stato. “Il Giappone e gli Stati Uniti continuano a dire che vogliono promuovere la pace e la sicurezza regionali e mantenere un ordine internazionale basato su regole. Infatti, formano cricche, si impegnano in piccoli circoli, manipolano la politica di gruppo e creano scontri di campo”, dice il ministero degli Esteri cinese davanti agli annunci nippo-americani per modernizzare la storica cooperazione militare (per altro tutto consequenziale a quanto annunciato ad aprile, quando Joe Biden ospitò alla Casa Bianca il primo ministro giapponese, Kishida Fumio).
Pechino, come ha fatto anche nel readout dell’incontro Wang-Blinken dice che si “ignorano i fatti, si inverte giusto e sbagliato e attacca maliziosamente la politica estera della Cina”, esagerando la realtà, detto in sostanza, per descrivere la Cina come una minaccia. Differentemente si descrive come “costruttore di pace nel mondo” e “difensore dell’ordine internazionale” (che però lavora per rivedere a proprio vantaggio secondo un modello con caratteristiche cinesi), mentre le azioni degli Stati Uniti e del Giappone sono “le vere sfide che devono affrontare la pace, la sicurezza e la stabilità regionali”.
Siamo nel mezzo dello scontro tra modelli che sta caratterizzando questa fase storica — tecnicamente anche l’Italia lo è, visto che Giorgia Meloni è stata la prima leader occidentale a incontrare il leader cinese, Xi Jinping, dopo la riunione del Terzo Plenum con cui ha consolidato il suo potere politico, economico, militare sulla Cina. L’amministrazione Biden è in fase di iper attività anche perché vuole chiudere alcune decisioni formali prima che un potenziale arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump possa invertire toni e protocolli — il repubblicano, che aveva già calato sull’alleanza col Giappone la politica del do ut des, ha già fatto un annuncio pesante su Taiwan.