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La Cina è vicina, ma sempre a distanza di sicurezza. L’opinione di Polillo

L’esportazione di capitale, come insegnava già Lenin agli inizi del secolo scorso, rappresenta l’attività tipica della “fase suprema” dello sviluppo capitalistico. Anche di un capitalismo anomalo come quello cinese. L’importante, da parte italiana, è evitare che ad esso si accompagnino forme di dominio politico, com’era fin troppo evidente nel Memorandum di intenti che aveva aveva accompagnato la firma degli accordi sulla Nuova via della Seta

Come, purtroppo, era forse prevedibile, peggio de La Repubblica solo il Fatto quotidiano. Per il quotidiano di Via Cristoforo Colombo la visita di Giorgia Meloni in Cina è stato solo un “bluff”. Per il Fatto, invece, in sintonia con la velina di Giuseppe Conte, la premier “rientra nella Via della Seta”, smentendo tutta la sua narrazione del passato. Insomma contrordine compagni!

Replica, seppure in modo indiretto, Barbara Cimmino, vicepresidente di Confindustria per l’export, dalle pagine del Sole 24 Ore: “Abbiamo tutte le possibilità per svolgere un ruolo di leadership in Europa e a livello globale”. Cosa che la sinistra non è disposta ad ammettere, contravvenendo ad una regola generale. Meloni, prima o poi passerà, l’Italia resta. E certe analisi, tirate per i capelli non fanno male alla premier, ma alla Nazione intera.

Ristabilito il giusto equilibrio, si può analizzare meglio il contenuto di una missione, come quella affidata a Giorgia Meloni, che presentava elementi oggettivi di difficoltà. La premier, innanzitutto, non rappresentava solo l’Italia, come presidente seppure pro-tempore del G7, aveva un’investitura più ampia che gli consentiva di parlare anche a nome dell’Europa. Tanto più che l’Ue aveva già deciso di procedere con l’imposizione di dazi sulle importazioni di vetture elettriche, Made in China, con un’aliquota che arrivava fino al 38 per cento.

Scelta giustificata? Tra il 2009 e il 2022, secondo quanto pubblicato da La Stampa (si può essere più obbiettivi senza essere di destra), che riprende un articolo del Wall Street Journal, la Cina avrebbe speso 173 miliardi di dollari per sostenere il nuovo settore dei veicoli elettrici e ibridi in plug-in. Sussidi necessari per favorire il successivo dumping delle vetture elettriche prodotte ed esportate in tutto il Pianeta, oltre che in grado di saturare il suo mercato interno.

Nel suo incontro con Xi Jinping, Giorgia Meloni non ha fatto finta di niente. Ma di fronte ad una richiesta esplicita della premier cinese, di lavorare affinché quelle stesse decisioni potessero in qualche modo essere ammorbidite, ha controbattuto ricordando che occorre “una cooperazione equilibrata mutualmente vantaggiosa e basata sulla reciproca fiducia”. Principi che, tradotti dal linguaggio diplomatico, hanno un significato preciso. Il commercio internazionale non può essere supportato da sussidi statali, che alterano il libero dispiegarsi della necessaria concorrenza.

Al tempo stesso sarebbe opportuno che tutti contribuissero a migliorare il clima delle relazioni internazionali. Sullo sfondo è l’aggressione di Putin nei confronti dell’Ucraina (condanna più volte ribadita), Gaza, le aggressioni degli Houthi, nel Mar Rosso, che sono di ostacolo proprio al commercio tra la Cina e l’Europa. E poi la complessa situazione dell’Indo-Pacifico, fino ad evocare il tema della riforma dell’Onu e del WtO: l’Organizzazione del Commercio Internazionale. Temi complessi ed in alcuni casi spinosi, che spiegano come mai quel colloquio che doveva durare solo mezz’ora si è invece protratto per 90 minuti.

Giuseppe Conte, riesumando la toga dell’”avvocato del popolo” ha fatto sentire la sua voce da timbro inconfondibile. “Ricordate quando Giorgio Meloni si scagliò contro il Memorandum d’intesa con la Cina approvato dal governo Conte I? Ebbene, oggi Meloni è in Cina” per ricucire “lo strappo della Via della Seta” dopo averlo procurato perché “oppressa da un cieco fanatismo ideologico e dall’ansia di compiacere Washington”. Se fossimo in un tribunale, il giudice censurerebbe un simile intervento. La scelta di allora altro non era che lo sgabello che doveva favorire l’egemonia dell’Oriente, nei confronti di un Occidente ritenuto ormai destinato ad un declino inarrestabile.

Lo Stesso Xi Jinping aveva accettato, di buon grado, lo smacco del ripensamento italiano, consapevole dell’azzardo, allora, tentato. Nell’incontro con Giorgia Meloni ha messo il suo sigillo sul Piano d’azione triennale destinato a sostituire quel vecchio progetto. Un accordo, tutto commerciale, che ha nulla a che vedere con il respiro politico della Via della Seta, che lui stesso ha voluto citare, ma per consegnarla alla storia. Quello “spirito” che rappresenta “un tesoro condiviso da entrambi i Paesi”. L’esatto contrario di quella materialità di cui sono fatti tutti gli accordi commerciali.

Saranno utili ad entrambi? Il deficit commerciale italiano rimane consistente. E almeno a nostro avviso, di difficile componimento. Gli ultimi dati, relativi alle impostazioni cinesi, parlano di 47 miliardi di euro. Le esportazioni italiane verso quei mercati non supererebbero i 20. Con uno squilibrio di 27. Confindustria ritiene che sia possibile incrementarle, fin da subito, di altri 4,7 miliardi. Cosa buona e giusta: che non riuscirebbe tuttavia a colmare lo svantaggio relativo. E allora: “Che fare?”.

La risposta non può che venire dagli investimenti cinesi in Italia, soprattutto nel settore dell’automotive. Che il mercato italiano sia pronto per inglobare la produzione cinese è dimostrato dal successo ottenuto da “DR automobile group”: una struttura quasi artigianale che attualmente commercializza, e in parte assembla, autovetture con il marchio Chery Automobile, JAC Motors e BAIC. Tutte rigorosamente Made in China. Produzione interessante, ma limitata. Mentre la componentistica, settore di punta dell’industria italiana, che oggi può contare solo sulla produzione di Stellantis, ha ben altre esigenze di mercato. Che solo una joint venture, con il più forte produttore nel campo dell’ibrido o dell’elettrico puro, può soddisfare.

L’interesse cinese ė diverso. L’esportazione di capitale, come insegnava già Lenin agli inizi del secolo scorso, rappresenta l’attività tipica della “fase suprema” dello sviluppo capitalistico. Anche di un capitalismo anomalo come quello cinese. L’importante, da parte italiana, è evitare che ad esso si accompagnino forme di dominio politico, com’era fin troppo evidente nel Memorandum di intenti che aveva aveva accompagnato la firma degli accordi sulla Nuova via della Seta. Pericolo per fortuna scampato. E oggi ben più circoscrivibile.

Questo quindi un quadro che mal si presta a sommari giudizi di natura partitica. Va pure bene, si potrebbe replicare, ma che c’entra l’Europa con tutto questo. Domanda assolutamente fuori luogo. L’Italia ha votato convintamente i dazi di importazione sulle autovetture cinesi. È inoltre la seconda economia manifatturiera del Continente. Se ora apre alla Cina, questo significa che le vecchie riserve, grazie ai nuovi accordi, sono superate. È quindi un via libera che altri possono seguire. Nel momento in cui le grandi incertezze del quadro internazionale rendono incerti i destini dei singoli Paesi e degli interi continenti.

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