Papa Francesco ha pubblicato una lunga lettera ai suoi preti, ma a veder bene non solo a loro, ma a tutti i cristiani, sull’importanza della lettura di romanzi e poesie. La riflessione di Riccardo Cristiano
Domenica quattro agosto, quando per tutti comincia davvero l’estate nel senso del periodo estivo dedicato al riposo, al tempo per sé, Papa Francesco ha pubblicato una lunga lettera ai suoi preti, ma a veder bene non solo a loro, ma a tutti i cristiani, sull’importanza della lettura di romanzi e poesie.
“Spesso nella noia delle vacanze, nel caldo e nella solitudine di alcuni quartieri deserti, trovare un buon libro da leggere diventa un’oasi che ci allontana da altre scelte che non ci fanno bene. Poi non mancano i momenti di stanchezza, di rabbia, di delusione, di fallimento, e quando neanche nella preghiera riusciamo a trovare ancora la quiete dell’anima, un buon libro ci aiuta almeno a passare la tempesta, finché possiamo avere un po’ più di serenità. E forse quella lettura ci apre nuovi spazi interiori che ci aiutano ad evitare una chiusura in quelle poche idee ossessive che ci intrappolano in maniera inesorabile. Prima della onnipresenza dei media, dei social, dei cellulari e di altri dispositivi, questa era un’esperienza frequente, e quanti l’hanno sperimentata sanno bene di cosa sto parlando. Non si tratta di qualcosa di superato”.
Il testo non ha precedenti nelle lettere pontificie, e il papa esordisce sottolineando che l’opera letteraria, la scrittura creativa, è una co-produzione tra scrittore e lettore: “In qualche modo [il lettore] riscrive l’opera, la amplifica con la sua immaginazione, crea un mondo, usa le sue capacità, la sua memoria, i suoi sogni, la sua stessa storia piena di drammi e simbolismi, e in questo modo ciò che emerge è un’opera ben diversa da quella che l’autore voleva scrivere. Un’opera letteraria è un testo vivo e sempre fecondo, capace di parlare di nuovo in molti modi e di produrre una sintesi originale con ogni lettore che incontra. Nella lettura, il lettore si arricchisce di ciò che riceve dall’autore, ma questo allo stesso tempo gli permette di far fiorire la ricchezza della propria persona, così che ogni nuova opera che legge rinnova e amplia il proprio universo personale”.
Leggendo ho provato a ricordare un romanzo e mi è immediatamente tornato alla mente “Gli scali del Levante” di Amin Maaluf, il grande scrittore libanese oggi segretario perpetuo dell’Accademia di Francia. Quel libro è entrato nel mio immaginario, l’ho riscritto dentro di me cento volte, immaginando quella storia d’amore tra una persona di Haifa e una di Beirut improvvisamente divise da un sopraggiunto confine invalicabile. Il papa osserva che “per un credente che vuole sinceramente entrare in dialogo con la cultura del suo tempo, o semplicemente con la vita delle persone concrete, la letteratura diventa indispensabile. A buona ragione, il Concilio Vaticano II sostiene che «la letteratura e le arti […] cercano di esprimere l’indole propria dell’uomo» e «di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità». La letteratura prende, in verità, spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali come «l’azione, il lavoro, l’amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita»”.
Non è proprio così anche per chi non crede? Penso di sì, ma per il credente è decisivo il successivo riferimento a Gesù, contenuto in un paragrafo intitolato “Mai Gesù senza carne”: “Prima di approfondire le ragioni specifiche per le quali è da promuovere l’attenzione alla letteratura nel cammino di formazione dei futuri sacerdoti, mi sia concesso richiamare qui un pensiero circa il contesto religioso attuale: Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne. L’urgente compito dell’annuncio del Vangelo nel nostro tempo richiede, dunque, ai credenti e ai sacerdoti in particolare l’impegno a che tutti possano incontrarsi con un Gesù Cristo fatto carne, fatto umano, fatto storia. Dobbiamo stare tutti attenti a non perdere mai di vista la “carne” di Gesù Cristo: quella carne fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza: in una parola, di amore”.
Qui siamo proprio nell’oggi, a questo diffuso Gesù astratto, senza carne. È pensando a questa “astrazione” che capisco la potente citazione di Jorge Louis Borges: “Quando il mio pensiero si rivolge alla letteratura, mi viene in mente ciò che il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges diceva ai suoi studenti: la cosa più importante è leggere, entrare in contatto diretto con la letteratura, immergersi nel testo vivo che ci sta davanti, più che fissarsi sulle idee e i commenti critici. E Borges spiegava questa idea ai suoi studenti dicendo loro che forse all’inizio avrebbero capito poco di ciò che stavano leggendo, ma che in ogni caso essi avrebbero ascoltato ‘la voce di qualcuno’. Ecco una definizione di letteratura che mi piace molto: ascoltare la voce di qualcuno.E non si dimentichi quanto sia pericoloso smettere di ascoltare la voce dell’altro che ci interpella! Si cade subito nell’autoisolamento, si accede ad una sorta di sordità ‘spirituale’, la quale incide negativamente pure sul rapporto con noi stessi e sul rapporto con Dio, a prescindere da quanta teologia o psicologia abbiamo potuto studiare”.
Leggendo ho avuto la sensazione che la sua lettera mi stia accompagnando davvero nel misterioso mondo della scrittura creativa, che allarga la nostra realtà con personaggi, storie, destinati a restarvi per sempre: “T.S. Eliot, il poeta a cui lo spirito cristiano deve opere letterarie che hanno segnato la contemporaneità, ha giustamente descritto la crisi religiosa moderna come quella di una diffusa ‘incapacità emotiva’. Alla luce di questa lettura della realtà, oggi il problema della fede non è innanzitutto quello di credere di più o di credere di meno nelle proposizioni dottrinali. È piuttosto quello legato all’incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani. C’è qui, dunque, il compito di guarire e di arricchire la nostra sensibilità. Per questo, al mio ritorno dal Viaggio Apostolico in Giappone, quando mi hanno chiesto che cosa ha da imparare l’Occidente dall’Oriente, ho risposto: «credo che all’Occidente manchi un po’ di poesia»”.
Bergoglio a mio avviso fa nuovamente centro, coglie il punto dell’oggi, quello nostro, del nostro rapporto con gli altri, con il creato e quindi anche con la poesia. Cosa ha voluto dire il teologo Karl Rahner parlando di un’affinità profonda tra il sacerdote e il poeta? Ecco la spiegazione del papa: “Le parole del poeta, scrive Rahner, sono ‘piene di nostalgia’, sono «porte che si aprono sull’infinito, porte che si spalancano sull’immensità. Esse evocano l’ineffabile, tendono verso l’ineffabile». Questa parola poetica «si affaccia sull’infinito, ma non può darci questo infinito, né può portare o nascondere in sé colui che è l’Infinito». Questo è proprio della Parola di Dio, infatti, e –prosegue Rahner– «la parola poetica invoca dunque la parola di Dio». Per i cristiani la Parola è Dio e tutte le parole umane recano traccia di una intrinseca nostalgia di Dio, tendendo verso quella Parola. Si può dire che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della Parola di Dio, come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei. Ed è così che Karl Rahner può stabilire un bel parallelo tra il sacerdote e il poeta: «solo la parola è intimamente capace di liberare ciò che trattiene in prigionia tutte le realtà inespresse: il mutismo della loro tendenza verso Dio»”.
Si arriva così al lettore e al suo discernimento, essenziale nella visione di un gesuita come Bergoglio. Per lui il lettore è “implicato direttamente nel processo della lettura. Ecco dunque dispiegarsi lo scenario del discernimento spirituale personale dove non mancheranno le angosce e persino le crisi. Infatti, sono numerose le pagine letterarie che possono rispondere alla definizione ignaziana di «desolazione»: «Si intende per desolazione […] l’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore». Il dolore o la noia che si provano leggendo certi testi non sono necessariamente brutte o inutili sensazioni.
Lo stesso Ignazio di Loyola aveva notato che in «coloro che procedono di male in peggio» lo spirito buono agisce provocando inquietudine, agitazione, insoddisfazione. Questa sarebbe l’applicazione letterale della prima regola ignaziana del discernimento degli spiriti riservata a coloro che «vanno di peccato mortale in peccato mortale» e cioè che in tali persone lo spirito buono si comporta «pungendole e rimordendo la loro coscienza con la sinderesi della ragione (cioè la capacità innata dell’uomo di conoscere i principi universali) » per portarli al bene e alla bellezza. Si capisce così che il lettore non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona che viene attivamente sollecitata ad inoltrarsi su un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati. L’atto della lettura è, allora, come un atto di ‘discernimento’, grazie al quale il lettore è implicato in prima persona come “soggetto” di lettura e, nello stesso tempo, come ‘oggetto’ di ciò che legge. Leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà il lettore vive l’esperienza di ‘venire letto’ dalle parole che legge. Così il lettore è simile ad un giocatore sul campo: egli fa il gioco ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente coinvolto in ciò che agisce”.
Ma dunque, a cosa serve la letteratura? Bergoglio lo spiega anche citando padre Antonio Spadaro, critico letterario cattolico e sottosegretario vaticano alla cultura: “La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco, dunque, a cosa ‘serve’ la letteratura: a ‘sviluppare’ le immagini della vita», a interrogarci sul suo significato”.
Serve, in poche parole, a fare efficacemente esperienza della vita. Ma cosa vorrà dire, concretamente? La risposta è chiarissima, immediata: “Leggendo un testo letterario, siamo messi in condizione di «vedere attraverso gli occhi degli altri»,acquisendo un’ampiezza di prospettiva che allarga la nostra umanità. Si attiva così in noi il potere empatico dell’immaginazione, che è veicolo fondamentale per quella capacità di identificazione con il punto di vista, la condizione, il sentire altrui, senza la quale non si dà solidarietà, condivisione, compassione, misericordia. Leggendo scopriamo che ciò che sentiamo non è soltanto nostro, è universale, e così anche la persona più abbandonata non si sente sola”.
Staordinario: Bergoglio spiega in poche parole il mistero di tanti personaggi che popolano la nostra realtà, da loro protagonisti, pur essendo soltanto personaggi di un romanzo che però non possiamo dimenticare: “L’originalità della parola letteraria consiste nel fatto che essa esprime e trasmette la ricchezza dell’esperienza non oggettivandola nella rappresentazione descrittiva del sapere analitico o nell’esame normativo del giudizio critico, ma come contenuto di uno sforzo espressivo ed interpretativo di dare senso all’esperienza in questione”.
Ma non è tutto qui, non è solo questo, non si tratta solo di altri che entrano nel nostro immaginario: “Quando si legge una storia, grazie alla visione dell’autore ognuno immagina a modo suo il pianto di una ragazza abbandonata, l’anziana che copre il corpo del suo nipote addormentato, la passione di un piccolo imprenditore che tenta di andare avanti malgrado le difficoltà, l’umiliazione di chi si sente criticato da tutti, il ragazzo che sogna come unica via di uscita dal dolore di una vita miserabile e violenta. Mentre sentiamo tracce del nostro mondo interiore in mezzo a quelle storie, diventiamo più sensibili di fronte alle esperienze degli altri, usciamo da noi stessi per entrare nelle loro profondità, possiamo capire un po’ di più le loro fatiche e desideri, vediamo la realtà con i loro occhi e alla fine diventiamo compagni di cammino. Così ci immergiamo nell’esistenza concreta ed interiore del fruttivendolo, della prostituta, del bambino che cresce senza i genitori, della donna del muratore, della vecchietta che ancora crede che troverà il suo principe. E possiamo farlo con empatia e alle volte con tolleranza e comprensione”.
Sì, questo accade a ciascuno di noi, leggendo un romanzo che riesce a coinvolgerci. Impariamo a vedere con gli occhi degli altri. Bergoglio così ci aiuta a capire molto anche della Grazia di Dio: “Nel riconoscere l’inutilità e forse pure l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto, il lettore accoglie il dovere del giudizio non come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco in quella straordinaria ricchezza della storia dovuta alla presenza dello Spirito, che si dà anche come Grazia: ovvero come evento imprevedibile e incomprensibile che non dipende dall’azione umana, ma ridefinisce l’umano come speranza di salvezza”.