La scelta di Sinwar spiega la radicalizzazione di Hamas, dove l’ala militare e gazawi ormai controlla l’organizzazione. Il rischio? Che diventi sempre più un proxy dell’Iran, spiega Dentice (CeSI) nell’appuntamento mensile con Formiche.net dall’attacco del 7 ottobre
“Se decidi di nominare Yahya Sinwar come capo politico di Hamas, significa che hai deciso di compiere una scelta chiara, simbolica per indicare che l’organizzazione è pronta a combattere fino a alla fine”, spiega una fonte regionale che commenta riservatamente la decisione palestinese sul successore di Ismael Haniyeh, eliminato da un’operazione israeliana nei giorni scorsi. “Certo è vero anche — aggiunge — che tali mosse sono consequenziali: Israele ha assassinato Haniyeh e dunque ha alzato il livello, colpendo quelli che un tempo erano leader politici quasi intoccabili, non solo i comandanti: questo potrebbe aver portato il gruppo a uno shift più apertamente militare, anche perché in fin dei conti si sta combattendo una guerra”.
Di quella guerra Sinwar è un simbolo. Più volte definito “capo dei capi”, era il più alto papavero di Hamas nella Striscia di Gaza dal 2017 — dopo essere succeduto a Haniyeh, a sua volta diventerò capo del Politburo ai tempi. Ora il processo di successione si ripete, ma in una fase totalmente differente e con un significato diverso. Nel 2017 Hamas era impegnata nella gestione territoriale della Striscia di Gaza strappata con la forza a Fatah dieci anni prima. C’erano anche stati tentativi di riconciliazione con l’altra grande fazione politico-combattente palestinese, tramite un accordo al Cairo. Qualcosa di simile a quanto accaduto le scorse settimana a Pechino, che però non fu mai implementato nei fatti (e vedremo se la mediazione cinese avrà maggiore successo). Il conflitto eterno con Israele procedeva a bassa intensità.
Perché scegliere Sinwar
Sinwar ai tempi aveva il compito di mantenere organizzata la Striscia, sotto tutti i punti di vista — da quello amministrativo a quello militare fino a quello dei rapporti esterni con alleati come l’Iran. In quegli anni predicava la volontà di seguire una “resistenza pacifica e popolare”, solo in parte confermata dopo la rielezione del 2021, quando si è aperta la fase che ha portato al 10/7. Ed è qui il punto: Sinwar non è solo un comandante esperto di Hamas, cofondatore delle Brigate Izz al Din al Qassam (ala militare del gruppo), ma è anche l’uomo che quanto meno ha approvato — se non programmato e pianificato — l’attacco di quel sanguinoso sabato dell’ottobre scorso che ha dato inizio all’attuale stagione di guerra.
Nominarlo a capo politico di Hamas significa ammettere che non c’è differenza tra quella dimensione e quella militare, almeno agli occhi esterni — e a quelli israeliani, che da tempo sostengono questa teoria anche tra chi cerca di tenere separate le due dimensioni, come l’Italia per esempio, per lasciare aperto uno spiraglio di dialogo. Nonostante certe scelte siano conseguenze di altre — Israele da sempre lavora in vari modi per dimostrare che non esistono differenze, e uno di questi è estremizzare il contesto per arrivare a una reazione reciproca di Hamas — la scelta di Sinwar elimina la terzietà del Politburo palestinese, che nei fatti finisce sotto il controllo di chi decide le attività di guerra sul campo di battaglia. Si crea cioè un’anomalia rispetto ad altri attori non statuali e organizzazioni politico-armate, che usano l’ufficio politico per parlare con governi e creare un grado di separazione rispetto a chi combatte.
Con questa scelta Hamas si dimostra però in difficoltà, disperato al punto di eliminare la dimensione più razionale e utile, rafforzando quella della guerriglia costante — rendendolo molto più simile ad altre realtà combattenti minori connesse all’Asse della Resistenza iraniano. Per i negoziatori, diventa ancora più difficile il dialogo (per esempio, come possono Egitto e Qatar, o la Giordania, sostenere la relazione politica se essa non è distinta da quella militare, dunque terroristica?). La distinzione tra ala politica e militare di Hamas si basa sull’idea che, mentre l’ala militare (le Brigate Izz ad Din al Qassam) è direttamente coinvolta in attività violente e atti di terrorismo, l’ala politica svolge ruoli amministrativi e governativi, specialmente dopo la presa del governo del 2007. Mantenere quei canali aperti attraverso distinzioni di forma è servito nel tempo anche per permettere l’afflusso di beni umanitari nella Striscia, dove al di là dell’enorme crisi innescata dalla guerra in corso, sono sempre mancati prodotti di prima necessità a causa del blocco imposto da Israele e alla mala gestione palestinese.
“La nomina dell’ultraterrorista Yahya Sinwar a nuovo leader di Hamas […] è un’ulteriore valida ragione per eliminarlo rapidamente e cancellare questa vile organizzazione dalla faccia della terra”, ha dichiarato il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz. Invece il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha comunque lasciato aperto uno spiraglio dicendo che adesso “sta a lui decidere se negoziare il cessate il fuoco. Il fatto sta anche però nel comprendere quanto spazio ci sia per certi negoziati. Mentre Washington e gli altri attori esterni continuano infatti a lavorare per una tregua più strutturata possibile, gli attori in campo sembrano virare verso la continuazione dello scontro. Scegliere Sinwar e non altre figure (per esempio Khaled Meshal) significa seguire l’onda popolare di chi odia Israele e chiede di combattere, preferendo un profilo militarizzato piuttosto di quello di un politico, di un leader direttamente coinvolto con combattimenti e sofferenze. Ossia significa scegliere, probabilmente per ragioni di sopravvivenza politica, di orientare le priorità verso la resistenza più che verso il negoziato. Israele ottiene un risultato: con l’asprezza della guerra riesce a dimostrare che l’unica via possibile è continuare il conflitto e obliterare Hamas, ventilando una soluzione militare anche contro i dante causa iraniani, che potrebbero aver mosso pressioni nella scelta di Sinwar.
Il commento di Dentice
Come ogni 7 del mese dallo scorso ottobre, Formiche.net fa il punto della situazione con Giuseppe Dentice, responsabile del Mena Desk del CeSI, il quale fa notare che, apparentemente in controtendenza rispetto alle evoluzioni regionali che ci aspettiamo in questi giorni (legate alla rappresaglia iraniana per l’uccisione di Haniyeh e di Hezbollah per l’eliminazione di Fuad Shukr), ora occorre osservare dentro Hamas. “La scelta di Sinwar significa che la componente militare e fortemente ideologizzata è dominante, supera quella politica più razionale, e il gruppo si sta radicalizzando ulteriormente e soprattutto ci spiega che i gazawi come Sinwar hanno preso in mano l’organizzazione, e ora si stanno giocando il loro capitale politico: ossia, la partita con Israele è tutt’altro che chiusa, secondo indicazioni che erano già presenti”.
L’estremizzazione del pensiero e delle attività di Hamas porterà riflessi anche nel contesto politico palestinese? “Possibile che abbia un peso anche in quel presunto processo di riconciliazione, perché la leadership di Hamas ha posizioni nette e antagoniste nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese e Fatah, e non apprezzano il cappello ideologico storico della resistenza palestinese, l’Olp”. Hamas vuole una riforma che possa includerla, ma per farlo dovrebbe rinunciare alla lotta armata e riconoscere Israele: difficile che adesso sia disposta a tanto. Per Dentice, questo potrebbe portare a radicalizzare anche il confronto con Giordania ed Egitto, in collegamento anche a ciò che accade in Cisgiordania. “Hamas ha iniziato a penetrare, tramite predicazioni collegate alla Fratellanza musulmana, nel contesto giordano in connessione a ciò che avviene nel West Bank, dove le cellule di Hamas sono già ben presenti. Il rischio è che la Giordania diventi una testa di ponte per radicalizzare ulteriormente il conflitto con Israele”.
E riguardo all’Egitto? “Il Cairo non apprezzerà, volevano il loro uomo, Abu Marzuq (colui che ha mediato la riconciliazione di Pechino, ndr), che poteva garantire maggiore equilibrio e controllo. Ma non sono stati accontentati. Attenzione però: non è detto che nella prammatica della situazione non trovino indirettamente sintesi nell’interesse comune di allontanare Israele dal Corridoio di Filadelfi, recuperando un’area libera e un firewall per sicurezza nazionale egiziana dal conflitto”. E che riflessi ci saranno sul piano internazionale? “Il rischio evidente è che tutto venga ricondotto come una lotta tra Israele e Iran, portando e dunque sminuendo in questo quadro la questione palestinese. Hamas potrebbe aumentare il coordinamento con la Jihad islamica palestinese e pure con Hezbollah in funzione pro-Iran e anti-Israele. Il rischio è vedere Hamas diventare oggi più che mai una piattaforma iraniana anti-israeliana. Qualche indicazione la vedremo già da come si svolgerà la rappresaglia di Teheran”.