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Una Ue a 35 può funzionare, ma senza unanimità e più riforme. Parla Minuto Rizzo

“La premessa è che l’Unione europea è un piccolo miracolo nato dopo due guerre disastrose, in cui gli europei si sono combattuti a vicenda e un attimo dopo si sono chiesti se si poteva fare qualcosa di meglio”, spiega il presidente del Nato Defense College Foundation, già segretario generale ad interim della Nato, Minuto Rizzo a Formiche.net. “Detto questo, accanto alle esigenze dei candidati servono riforme e sforzi comuni, oltre che meccanismi più semplici e senza unanimità”

Non è sufficiente voler aderire all’Ue, dado geopolitico ormai tratto, ma al contempo è imprescindibile che i candidati facciano uno sforzo per europeizzarsi (riforme e legalità) e che il sistema di regole pratiche venga modernizzato (abolire l’unanimità). Questa la premessa secondo l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo per riflettere sul futuro dell’Ue ma con la consapevolezza della strada, niente affatto scontata, fin qui percorsa. Già segretario generale ad interim dell’Alleanza Atlantica e attualmente presidente del Nato Defense College Foundation, l’esperto diplomatico affronta con Formiche.net il tema dell’allargamento europeo, attualizzandolo secondo i fronti bellici aperti e secondo le nuove sfide non solo politiche che attendono gli stati membri (vecchi e nuovi).

Dal Baltico al Mar Nero, condivide questa idea di allargamento dell’Ue?

Inutile nasconderlo, questo è il tema dei temi perché investe il nostro futuro e quello dei nostri figli: non è un dossier secondario. Dovremmo immaginare una struttura che permetta il funzionamento di un’Europa a 35 dal momento che, accanto ad un imperativo politico, occorre il modus più utile per la convivenza quotidiana. Ma ritengo utile una premessa, che solo in parte sembrerebbe scontata.

Quale?

Viaggio per il mondo da 50 anni, sono stato di recente anche a Taiwan e tutti mi chiedono come abbiamo fatto a creare l’Ue: altrove non c’è nulla di simile. In Asia non c’è nulla che gli assomigli, in Africa c’è un’Unione africana ma con un piglio diverso, come in America Latina. L’Unione europea è un piccolo miracolo nato dopo due guerre disastrose, in cui gli europei si sono scannati a vicenda e un attimo dopo si sono chiesti se si poteva fare qualcosa di meglio. Non solo va ringraziata quella crisi ma anche lo sforzo di uomini illuminati come Schumann, Adenauer, Monnet che hanno concretizzato quelle idee: per cui dobbiamo partire da questo principio prima di cadere nella moda del momento di criticare l’Europa. Credo che bisognerebbe anche parlare degli aspetti positivi dell’Europa e non solo delle critiche, legittime, che si possono fare perché è chiaro che in un organismo così complesso, che segue una serie di trattati che si sono susseguiti nel tempo fino al Trattato di Lisbona, e che ha avuto una serie di allargamenti, certamente sono stati commessi degli errori. È umano.

L’Italia e l’Ue?

Se l’Italia non fosse nell’Unione europea col debito pubblico che ha finirebbe come l’Argentina. La gente se ne rende conto? Per cui certo che manteniamo i nostri valori nazionali ma in un contesto che li ottimizzi al meglio. Spesso siamo portati a parlare troppo degli errori dell’Europa e poco dei suoi benefici. Col debito che abbiamo restiamo nell’euro, con tutti i suoi difetti, che ci protegge: questo bisogna che la gente lo sappia.

Da 27 a 35, il passo sarà breve?

Oggi siamo a 27 e ci siamo arrivati molto velocemente: ho lavorato vent’anni sull’Unione europea e sono stato anche direttore degli Affari europei della Farnesina, quindi è materia che conosco molto bene. Oggi si parla di questa obbligatorietà perché l’aggressione all’Ucraina ha creato un senso di ansietà nell’opinione pubblica europea. Accanto ai Paesi balcanici c’è anche l’esigenza di Moldavia e Ucraina, ma aggiungo che gli inglesi, non adesso ma fra dieci anni, torneranno in Ue.

Come potrà funzionare l’Europa allargata?

Non è sufficiente voler aderire all’Ue, dado geopolitico ormai tratto, ma al contempo è imprescindibile che i candidati facciano uno sforzo per europeizzarsi (riforme e legalità) e che il sistema di regole pratiche venga modernizzato (abolire l’unanimità). Conosco bene i Paesi balcanici e credo che rappresentino il vero interesse italiano, molto più dei Paesi arabi o di quelli mediterranei con cui certamente vanno attuare politiche di buon vicinato. Ma il vero rapporto storico dell’Italia, come mi insegnava l’ex ministro della difesa Beniamino Andreatta, è con i Balcani dove si parla anche italiano e dove ci sono minoranze italiane.

Macedonia del nord, Kosovo, Serbia come faranno a entrare in cinque anni e uniformarsi al nostro tipo di cultura?

Bisogna trovare dei sistemi per dargli la speranza di ingresso, ma a mio modo di vedere non un timing prestabilito bensì tarato su una serie di obiettivi da raggiungere a scaglioni. Il problema originario è che naturalmente i padri fondatori dell’Europa non potevano immaginare lo sviluppo che poi avrebbe avuto: per cui l’unico strumento che esiste oggi è senza dubbio l’adesione, ma domani potrebbe essere affiancato dallo sforzo parallelo dei candidati. In alcuni di quei paesi è noto che la democrazia parlamentare, come la conosciamo noi, vacilli e quindi la società civile deve crescere.

Il presidente della commissione esteri della Camera, Giulio Tremonti, ha detto che è giusto allargare l’Europa ma senza esportare la Bolkestein. Ha ragione?

È un uomo intelligente che cerca di conciliare le due cose ma non so se sia così, perché naturalmente il problema della Bolkenstein è un problema che investe il tema generale della sussidiarietà: da quando esiste l’Unione europea nelle sue varie denominazioni vi sono le competenze che devono rispettare l’organo regolatorio comune. Si tratta di un tema difficile: come si fa a stabilire una regola precisa secondo cui certe cose le fa lo Stato e certe cose le fa Bruxelles? Vedo da un lato la tendenza a regolare troppo e, dall’altro, forse c’è la tendenza a non farsi regolare troppo per ragioni di politica interna. Serve trovare dei compromessi ma certamente in Europa l’idea che la concorrenza sia la regola di base è un passo culturale: si può applicare in modo diverso a Paesi diversi, ma senza svilire il principio della concorrenza. Rimane il fatto che alcune regole comuni ci devono essere.

Come incentivare la nascita di meccanismi pratici che favoriscano la convivenza con nuovi stati membri e, quindi, tradurre in pratica una tesi geopolitica?

Non c’è nessun libro che indichi la ricetta, per cui credo sia utile ragionare con il buonsenso del padre di famiglia, come si diceva una volta. Partirei dai tempi: quattro o cinque anni in più farebbero comodo anche affinché i candidati facciano il loro dovere alla voce riforme. Non va dimenticata l’enfasi iniziale che risale agli anni ’90. Spesso alcuni Paesi tendono a usare le critiche all’Unione europea per dare la colpa all’Europa delle loro mancate modernizzazioni. Sarà importante, in prospettiva, togliere l’unanimità dove c’è e forse lasciarla su altri aspetti. Lo dimostra il caso Orban che blocca le decisioni rappresentando solo 8 milioni di abitanti. Ciò non è concepibile in un sistema di 30 Paesi che vuole essere alla guida del mondo.

In secondo luogo penso sia utile lo strumento del Consiglio politico europeo, a cui ha recentemente preso parte anche il premier Giorgia Meloni in Inghilterra. Si tratta di un’occasione utilissima di confronto tra membri, un forum in cui tutti i Paesi europei sono invitati per dare l’idea che nessuno è di serie B.

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