L’inaugurazione del maxi impianto di semiconduttori taiwanesi in Germania segna un momento. Berlino dibatte su navi nello Stretto di Taiwan, postura con la Cina e spazio commerciale, in un momento in cui diminuisce il margine di distinzione tra economia e politica (anche militare)
Si chiamerà Esmc, che sta per European Semiconductor Manufacturing Company, dove la “E” sostituisce la “T” di Taiwan Semiconductors Manufacturing Company, perché la Germania ha voluto dare al nuovo maxi impianto di Dresda un’impronta europea (“forse anche per scaricarsi di dosso il peso della percezione negativa che la Cina ha di certi investimenti”, è il commento velenoso di un osservatore diplomatico). I chip della Sassonia (o forse meglio dire “Silicon Saxony”) verranno prodotti rispondendo alla sete di semi conduttori dell’Unione europea e tenendo Berlino al centro degli ingranaggi che muovono l’economia dell’Unione. Ma alla Germania potrebbe servire di più in un momento in cui le sfere sicurezza, politica internazionale ed economia sono totalmente interconnesse.
Il progetto, inaugurato l’altro ieri dalla leader Ue Ursula von der Leyen — insieme al cancelliere tedesco, Olaf Scholz, e al capo di Tsmc, Ching Chin Wei, che ha posato la prima pietra dello stabilimento — vale dieci miliardi di euro (di cui cinque in aiuti di stato approvati dalla Commissione europea, qualcosa di simile a quanto fatto con l’investimento catanese di STMicroelectronics); è frutto di una joint venture con Infineon e Bosch dalla Germania e NXP dai Paesi Bassi; si abbina agli altri importanti investimenti in microchip (per esempio la mega-fab di Intel a Magdeburgo) e cerca di far fronte a ritardi e complicazioni per continuare a tenere credibile, tra gli scetticismi, l’obiettivo di Bruxelles per controllare almeno il 20% della catena del valore globale dei microchip entro il 2030.
De-risking fest
Esmc è dunque parte del grande processo di de-risking, sia perché crea un impianto di produzione di wafer di silicio ultra-tech (utili per i veicoli elettrici e per centinaia di altre apparecchiature tech) all’interno dei i confini europei, piantando sul territorio l’azienda egemone del settore a livello globale. E poi perché, facendolo, aiuta Tsmc nel processo di internazionalizzazione, pensato anche davanti a al rischio di un’invasione cinese di Taiwan (circostanza che, è bene sempre ricordarlo, fa ancora parte di piani potenziali e narrazioni psico-sociali del Partito Comunista Cinese). L’impianto tedesco si inserisce in una più ampia strategia di espansione di Tsmc, che ha portato l’azienda a costruire nuovi impianti anche negli Stati Uniti e in Giappone (questo sebbene Tsmc consideri ancora centrale la sua attività a Taiwan).
Nel suo comunicato stampa, la società di Taiwan descrive la fabbrica di Dresda come un “salto significativo che affronta la capacità strategica e le esigenze tecnologiche” per i suoi clienti europei. Ed è il termine “salto” che diventa utile per descrivere la situazione tedesca. La Germania è divisa tra chi vorrebbe appunto un salto di qualità nell’impegno strategico globale, che passa anche e inevitabilmente dal contenimento cinese ormai prerogativa dell’asse euro-atlantico (e dei like minded indo-pacifici), e chi chiede il mantenimento dello status quo attuale e storico.
È noto infatti che c’è una business community, per esempio quella legata all’immenso settore dell’automotive, che spinge da anni il governo a evitare scatti nella severità con Pechino — perché considera il mercato cinese come prioritario. E in un momento in cui il Partito/Stato decide di mettere sotto scrutinio i prodotti lattiero-caseari europei, in risposta ai possibili dazi europei sugli EV cinesi, il rischio dell’innesco di dinamiche di guerra commerciale ampia è reale. E attenzione ancora: secondo i dati di Bloomberg, nella prima metà dell’anno, la Germania ha esportato meno in Cina che in Polonia. Sebbene il dato debba far riflettere anche su dinamiche economiche interne e politiche commerciali cinesi, la preoccupazione ha una sua concretezza.
Durcheinander
Ma mentre i crucci crescono, emerge contemporanea una linea interna a Berlino che chiede maggiore impegno strategico negli affari internazionali, abbandonando le classiche posizioni economiciste. E dunque quei crucci si moltiplicano. In questo, il rapporto con Taiwan è un paradigma, perché include quello con la Cina e dunque somma i temi politici della protezione dello status quo di Taipei a quelli commerciali del mantenere rapporti più che cordiali con Pechino. E per la Germania l’evidente riflesso economico dimostrato dall’investimento di Dresda diventa uno stress test in una fase in cui è sempre più chiaro che non ci sono spazi per l’ambivalenza.
Se nel settembre 2020, quando il governo tedesco ha presentato le linee guida politiche per la regione indo-pacifica, era ancora possibile (forse) omettere dalle 70 pagine anche una sola menzione a Taiwan, ora diventerà tutto complesso. L’aver pubblicato, tre anni dopo, da parte di un nuovo governo tedesco la prima strategia di sicurezza nazionale del Paese senza alcun riferimento a Taiwan è una mossa da struzzo che non ha più spazio con ESMC a Dresda. Tanto che la discussione è già passata sul tavolo operativo militare proprio in questi giorni.
Il transito, mercoledì 21 agosto, lungo lo Stretto di Taiwan del cacciatorpediniere USS Ralph Johnson mette pressione (nemmeno troppo indiretta) a Berlino, proprio adesso che è sotto stress sul come gestire il dossier Taiwan, perché mentre si gettano le fondamenti dello stabilimento di Dresda, sul tavolo del Bundesregierung è arrivato il momento di prendere la decisone se autorizzare o meno il transito di due navi militari lungo lo Stretto di Taiwan.
Unentschlossenheit, autocoscienza e interessi
“La decisione non è ancora stata presa”, ha detto due giorni fa a Reuters il comandante del gruppo di lavoro navale, il contrammiraglio Axel Schulz, aggiungendo che il tempo ha un ruolo visto che il transito — il primo dal 2001 — dovrebbe avvenire il prossimo mese, e le pianificazioni delle rotte di certi assetti non sono cose che si decidono solitamente troppo a ridosso delle missioni. “Stiamo mostrando la nostra bandiera qui (intende nell’Indo-Pacifico, dove nei prossimi giorni le navi tedesche chiameranno porti in Giappone e Filippine, ndr) per dimostrare che siamo al fianco dei nostri partner e amici, del nostro impegno per l’ordine basato sulle regole, la soluzione pacifica dei conflitti territoriali e le vie di navigazione libere e sicure”. Le dichiarazioni di Schulz espongono all’esterno il dibattito interno.
Lungo le acque dello Stretto — simbolo fisico dello status quo sino-taiwanese — passa la metà del commercio globale e, dato che Pechino ne rivendica intera sovranità, perché considera Taiwan una provincia ribelle (e dunque quelle attorno all’isola sono considerate rotte interne), la situazione nell’area diventa questione globale. La presenza occidentale è considerata politicamente simbolica per sottolineare tale concetto — totalmente detestato dalla Cina. “La Cina si oppone ai tentativi di minare la sovranità territoriale e la sicurezza della Cina in nome della libertà di navigazione”, dice il ministero degli Esteri di Pechino.
La Germania si trova di fronte a un bivio: continuare con questa sorta di ambivalenza strategica o assumere un ruolo deciso e più esplicito nella cosiddetta difesa dell’ordine internazionale. L’investimento di Dresda è stato tenuto nella narraIone della Cancelleria solo sul piano economico, evitando quello politico, ma la decisione sul transito nello Stretto di Taiwan non può essere racconta come una mera questione di rotta geografica, mentre il dibattito interno sulla Cina segnano il passo con cui Berlino intende affrontare le nuove sfide globali. Servirà chiarezza e determinazione, perché il tempo delle scelte è arrivato, come fa capire il contrammiraglio Schulz.