L’austerity, a volte, può essere una ricetta necessaria. Lo fu ad esempio nel 2011. Ma non può essere l’unico strumento. Nemmeno nel caso di un Paese indebitato, come l’Italia. Perché non è detto che una simile politica, da sola, sia in grado di produrre i necessari risultati, ai fini di una sua liberazione. Gianfranco Polillo riflette sull’editoriale di Mario Monti pubblicato dal Corsera
Magari fosse così semplice: bastasse l’austerity, nobilitata dal richiamo al patriottismo, per approdare nel migliore dei mondi possibili. La tesi di Mario Monti, adombrata dalle pagine de Il Corriere della sera. Se questa fosse la soluzione non ci sarebbe altro da fare che imporre le relative ricette. E guai ai trasgressori. Ma purtroppo così non è a causa di un’equazione – quella relativa alla gestione della finanza pubblica – molto più difficile da risolvere, rispetto alle tesi enunciate. In cui non è difficile scorgere quella che, una volta, era semplicemente considerata “falsa coscienza”. Il punto di vista prevalente di un élite che poco ha a che vedere con le angustie, i dilemmi, le sofferenze del vivere della gente comune.
L’austerity, a volte, può essere una ricetta necessaria. Lo fu ad esempio nel 2011. Ma non può essere l’unico strumento. Nemmeno nel caso di un Paese indebitato, come l’Italia. Perché non è detto che una simile politica, da sola, sia in grado di produrre i necessari risultati, ai fini di una sua liberazione. L’esperienza storica, non solo in Italia, tende, infatti, a dimostrare il contrario. Nel periodo 2011/13, quando il credo monetariste era trionfante, non solo il debito italiano, in rapporto al Pil, ma quello dell’Eurozona, aveva toccato i suoi valori più alti. Superati poi solo nei successivi anni del Covid.
La spiegazione? Semplice: le politiche unidirezionali con una mano danno, riducendo il deficit di bilancio, ma con l’altra tolgono, comprimendo il ritmo di crescita. Il risultato finale, pertanto, è determinabile solo ex post. Bilanciando gli effetti contrapposti della manovra. Il che spiega perché, da tempo immemorabile, la misura del debito pubblico non è data dal suo valore assoluto, ma del suo rapporto con il sottostante ammontare del prodotto interno lordo, in termini nominali. Negli anni precedentemente indicati, l’Italia e l’Eurozona avevano ridotto il deficit di bilancio. Ma la caduta del Pil era stata maggiore e di conseguenza il rapporto debito/Pil era fortemente peggiorato.
Tutto ciò avveniva in tempi, per così dire normali. Sono gli stessi di oggi? Difficile crederci: basti guardare a quel che capita ai confini est e sud dell’Europa. Guerre che stanno cambiando il volto geopolitico del Pianeta. Sono fattori destinati ad incidere sulle scelte politiche di ciascun Paese? Ursula Von Der Leyen ne è più che convinta ed è difficile darle torto. Se l’Europa non vuole essere una semplice appendice degli Stati Uniti o, peggio ancora, della Cina, deve trovare la forza di reagire, affrontando, le sue vecchie e le sue nuove contraddizioni. Che un origine in comune, tuttavia, l’hanno: un tasso di crescita complessivo del tutto inadeguato.
Questo è il vero tallone d’Achille che, negli anni, ha contribuito ad alimentare il declino di tutto il Continente europeo. Inserendo in questo contesto la stessa Russia di Putin. Sebbene il nuovo Zar del Cremlino, sfoggi la sua potenza distruttiva, essa è tuttavia pagata, a caro prezzo. La precarietà degli equilibri di finanza pubblica hanno quella stessa radice. Non sarebbe stato così se il tasso di crescita, invece di essere da prefisso telefonico, fosse stato del 3 o del 4 per cento all’anno. Avrebbe drasticamente ridotto i volumi della disoccupazione, reso possibile un maggior finanziamento del welfare – a partire dalla sanità – o dato copertura alle maggiori spese legate ai problemi della sicurezza. Contribuendo, forse, a scoraggiare la folle iniziativa dello stesso Putin, nei confronti dell’Ucraina.
Ed invece l’eccesso di ortodossia ha prodotto risultati paradossali. “Ogni anno – ha detto il Presidente della Commissione europea, nel suo discorso di investitura – più di 300 miliardi di euro di risparmi delle famiglie europee vanno dall’Europa ai mercati esteri, perché il nostro mercato è troppo frammentato. E poi questo denaro viene spesso utilizzato per acquistare aziende europee innovative dall’estero”. Esempio tipico di quelle nuove contraddizioni di cui si diceva in precedenza.
La bassa crescita europea di questi ultimi anni, come mostrano i dati appena citati, non è stata la figlia di una carenza di risorse. Al contrario, queste ultime sono state talmente abbondanti da debordare dalle ristrettezze di un mercato interno, caratterizzato dalla cronica insufficienza della domanda (investimenti e consumi), per contribuire allo sviluppo dei Paesi concorrenti. Pessimo esempio di una politica autolesionista su cui sarebbe necessario soffermarsi. Non basterà, tuttavia, aggredire la sola frammentazione finanziaria dei mercati per venirne a capo, cosa comunque necessaria, ma sarà necessario guardare meglio all’interno del meccanismo di accumulazione per individuare le sue contraddizioni di carattere sistemico.
Ricetta da replicare anche in Italia. L’anno in corso si chiuderà, a dicembre, con una sua posizione creditoria nei confronti dell’estero pari a circa il 10 per cento del Pil. In questo caso, oltre 200 miliardi di euro destinati a seguire il destino descritto in precedenza. Ma in un Paese in cui la dinamica del debito è ben più preoccupante, nel confronto con gli altri partner europei. E dove i livelli di benessere relativi, a partire dal reddito pro-capite, sono più carenti ed in continuo peggioramento. Elementi che dovrebbero rendere ancor più robusta la riflessione. Come del resto sta già avvenendo grazie soprattutto ai contributi di chi, come Enrico Letta o Mario Draghi, non si sono fermati alla superficie delle cose.