L’accademico americano analizza su Foreign Affairs il rapporto costo-opportunità negli attacchi ucraini all’interno del territorio russo. E il risultato non è troppo incoraggiante
Dopo i primi mesi di guerra, caratterizzati da rapidi spostamenti di fronte e da azioni offensive di una fazione immediatamente seguite da controffensive portate avanti dalla fazione avversaria, l’aspetto dei campi di battaglia ha iniziato a trasformarsi. Molteplici linee di trincee si sono sviluppate attraverso il territorio ucraino, simbolo del passaggio a dinamiche di attrito che avrebbero caratterizzato la seconda fase della guerra. Dinamiche che, secondo quanto scritto dal generale statunitense David Petraeus e dallo storico militare Andrew Roberts nel loro recente volume “Conflict: A Military History of the Evolution of Warfare from 1945 to Ukraine”, si presentano soltanto quando nessuna delle due parti coinvolte nel conflitto ha più possibilità e/o capacità di svolgere operazioni di manovra.
In una tale situazione, dove Mosca può (almeno teoricamente) contare su risorse superiori a quelle di Kyiv in termini di uomini e mezzi, non è difficile capire perché gli ucraini tentino di trovare “fronti” alternativi a quello della prima linea. Tra questi rientrano gli attacchi in profondità in territorio russo, che le forze armate ucraine hanno condotto in diverse occasioni nei mesi scorsi con l’ausilio degli Unmanned Aerial Systems (Uas, altresì noti come droni), puntando sia alle infrastrutture energetiche che a centri abitati siti ben oltre le regioni di confine. Tutto questo nonostante gli Stati Uniti, principali sponsor dell’Ucraina, avessero volutamente limitato l’invio di sistemi d’arma capaci di realizzare attacchi in profondità, temendo che simili operazioni avrebbero potuto causare escalation non desiderate. Un diverso approccio al riguardo da parte della Casa Bianca avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra?
“È improbabile che la differenza sia decisiva”, dice Stephen Biddle, professore di International and Public Affairs presso la Columbia University e Adjunct Senior Fellow for Defense Policy del Council on Foreign Relations, in un articolo pubblicato su Foreign Affairs. “Per ottenere un effetto decisivo, l’Ucraina dovrebbe combinare questi attacchi con una manovra di terra strettamente coordinata su una scala che le sue forze non sono state in grado di padroneggiare finora in questa guerra. Altrimenti, i benefici che l’Ucraina potrebbe trarre da un’ulteriore capacità di attacco in profondità non sarebbero probabilmente sufficienti a ribaltare la situazione”.
Non che queste tipologie di attacchi siano superflue. Secondo il professore statunitense una maggiore capacità di attacco in profondità dell’Ucraina potrebbe addirittura cambiare il corso della guerra, con attacchi a obiettivi logistici e di comando distanti, così come a basi aeree o navali russe, aree di assemblaggio delle forze di terra, fabbriche di armi o infrastrutture di supporto, l’industria energetica civile o centri di controllo politico russo, come il Cremlino. Colpire, o anche solo minacciare di colpire tali obiettivi, ridurrebbe l’efficienza delle offensive russe, indebolirebbe la sua capacità difensiva, renderebbe l’azione militare meno sostenibile nel lungo periodo e aumenterebbe i costi della guerra per Putin e la classe dirigente russa.
Tuttavia l’alto costo dei sistemi necessari per realizzare con successo tali operazioni, così come la capacità di adattamento mostrata da entrambe le fazioni durante il conflitto e la difficoltà di Kyiv nell’eseguire operazioni ad alto tasso di coordinamento, rendono dubbia la portata di questi effetti sul piano operativo. E anche sul piano strategico, le possibilità di mettere fuori uso l’apparato industriale-militare e le infrastrutture avversarie sono piuttosto basse: dalla seconda guerra mondiale in poi, nessuno di questi sforzi si è rivelato decisivo nei conflitti del ventesimo e del ventunesimo secolo, soprattutto se comparato con le risorse ad esso destinate.
“Naturalmente”, conclude Biddle, “condurre attacchi in profondità più estesi aiuterebbe l’Ucraina. Danneggiare fabbriche o infrastrutture all’interno della Russia potrebbe contribuire a risollevare il morale dell’Ucraina, ad esempio, come un piccolo bombardamento statunitense contro Tokyo nel 1942 fece per il morale americano nella Seconda Guerra Mondiale. Ma ora come allora, questa capacità non trasformerà la situazione militare sul campo. Con questo in mente, i partner di Kyiv dovrebbero ora chiedersi se i modesti benefici militari valgano il rischio di escalation. La risposta dipenderà dalla valutazione della probabilità di espansione del conflitto e dalla tolleranza al rischio dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali. Quest’ultima è in ultima analisi un giudizio di valore; l’analisi militare da sola non può stabilire dove tracciare il limite. Ciò che può fare è prevedere le conseguenze sul campo di battaglia delle decisioni politiche. Se l’Occidente elimina le limitazioni alla capacità di attacco profondo dell’Ucraina, è improbabile che le conseguenze includano un cambiamento decisivo nella traiettoria della guerra”.