Se guardata in questa ottica, Trump potrebbe, chissà, magari aver mostrato non il meglio di sé, ma sostiene comunque una politica eticamente migliore, più razionale e calcolata e maggiormente corrispondente agli interessi generali del popolo americano, mentre Harris, più efficace, forse, sul piano comunicativo, testimonia perfettamente la parzialità, il radicalismo, la pericolosità sociale, dispendiosa e irrazionale, di un certo settarismo, fintamente egualitario, della sinistra globale. L’opinione di Benedetto Ippolito
Stanotte si è consumato il primo confronto televisivo tra Donald Trump e Kamala Harris, novanta minuti nei quali i due candidati per le elezioni Usa di novembre si sono combattuti su tutto.
Le reazioni della stampa internazionale hanno attribuito alla vice presidente un certo successo, probabilmente giustificato anche dalla novità della sua presenza pubblica rispetto alla ormai consuetudine che si ha nei riguardi del tycoon.
La vittoria dell’uno o dell’altro nel frangente è controversa, tanto più che endorsement autorevoli, da ultimo quella di Taylor Swift nei rispetti della Harris, dopo quella di Musk a favore di Trump, continuano a cadere a pioggia, come è logico che sia, spostando giornalmente i flussi volatili del consenso.
A prescindere dunque dalle considerazioni sulla comunicazione, che ampio spazio stanno trovando un po’ ovunque, è importante non perdere di vista i contenuti delle proposte che da parte repubblicana e da parte democratica sono esibite.
Se, infatti, è vero che ormai la politica è quasi tutta apparenza, dobbiamo però concentrare l’attenzione anche su qualche pietra solida che si nasconde sotto la coltre della corazza comunicativa che riveste e nasconde questi eventi.
Sui temi economici Harris si è fatta paladina dei ceti medi, mentre Trump è sembrato intercettare maggiormente l’esigenza complessiva del popolo americano in materia di potere di acquisto dei salari, di inflazione e pressione fiscale.
Chiaramente non è mancata la marcatura netta della divisione sostanziale tra i due in merito all’emigrazione e alla politica estera. Nel primo tema Trump è parso più solido e netto, mentre Harris ambigua e dissimulata, mentre in politica estera la candidata democratica difficilmente avrebbe potuto smarcarsi dalla belligerante fragile linea fallimentare di Biden, la quale sicuramente non ha contribuito ad alimentare l’armonia internazionale in questi anni.
Trump, a ben vedere, ha potuto vantare maggiore libertà di manovra e promettere una discontinuità che sicuramente è ben sintonizzata attualmente con lo spirito e le esigenze complessive degli americani, dell’Europa e del mondo intero.
Un aspetto particolarmente significativo ha ricoperto nella diatriba faccia a faccia l’attentato subito dal leader repubblicano, il quale ha attribuito un concorso di colpa alla linea radicale della sinistra, nonché l’attacco al Congresso. Su quest’ultima faccenda, per Harris Trump è colpevole e per Trump lo sono i democratici, in specie l’ex speaker Pelosi che non avrebbe mosso tempestivamente la guardia nazionale per arginare i violenti rivoltosi.
Il vero punto essenziale di divaricazione metapolitica è stata però la questione etica per eccellenza, in modo peculiare la gestione legale dell’aborto. Negli Usa vi sono legislazioni diverse nei diversi Stati, ma la linea dei repubblicani è ovunque diametralmente opposta a quella dei democratici. D’altronde, la forbice tra la visione pro vita e quella pro libertà costituisce un discrimine cruciale e permanente per intendere il senso filosofico che ha essere oggi di destra o di sinistra in Occidente.
Trump si è rivelato giustamente ostile all’estensione ideologica dell’aborto fino al nono mese, limite nel quale il confine con l’omicidio diventa effettivamente impossibile, mentre, come di consueto, Harris si è fatta paladina della matrice identitaria del sostegno libertario all’interruzione di gravidanza, sostanzialmente fatta coincidere con una prioritaria ed esclusiva questione di volontà individuale femminile.
Da quest’ultimo dilemma etico emerge l’aspetto essenziale della positiva concezione conservatrice di Trump nei rispetti del pessimo radicalismo progressista.
La politica per la destra statunitense deve guardare all’interesse generale della nazione, facendo combaciare questa finalità comunitaria con la vita personale nel suo insieme, con i doveri e la libertà di tutti, con una visione non classista ma complessiva degli obiettivi; dall’altra parte, invece, e Harris è icona di questa scommessa, la sinistra vuole indirizzarsi solo verso alcune categorie specifiche che sono sostanzialmente o un élite culturale, cittadina ed emancipata, o una base povera, lacerata dall’emarginazione, animata dalla rivendicazione e provata dalla miseria.
Tutta la disputa latente e sottesa sta qui: interesse generale (vita, comunità, crescita, defiscalizzazione, sicurezza, pace) oppure interesse particolare (individualismo, libertà femminile, emancipazione, tasse, ridistribuzione, apertura dei confini, guerra).
Se guardata in questa ottica, Trump potrebbe, chissà, magari aver mostrato non il meglio di sé, ma sostiene comunque una politica eticamente migliore, più razionale e calcolata e maggiormente corrispondente agli interessi generali del popolo americano, mentre Harris, più efficace, forse, sul piano comunicativo, testimonia perfettamente la parzialità, il radicalismo, la pericolosità sociale, dispendiosa e irrazionale, di un certo settarismo, fintamente egualitario, della sinistra globale.
I conti non sono ancora fatti. Il totale si calcolerà dopo lo spoglio di novembre. Ma di certo vi è che, ben oltre i singoli personaggi, alla fine sono le idee a vincere, e quelle repubblicane sono sicuramente migliori.