Il valore aggiunto dell’intervento di Mario Draghi non va ricercato nel dato numerico, già noto agli addetti ai lavori, ma nel contesto in cui esso è collocato – quelle quattrocento pagine scarse di analisi e di proposte – nonché nell’autorevolezza di un personaggio, che non teme confronti. Quindi in una novità sostanziale che, tuttavia, pochi hanno saputo vedere. L’analisi di Gianfranco Polillo
Il day after la presentazione del rapporto Draghi sul futuro dell’Europa, da parte dell’ex Bce, è stato, com’era prevedibile, caratterizzato da un florilegio di interventi e dichiarazioni. Segno evidente, per dirlo con le parole di Roberto Cingolani, ad di Leonardo, di un generale apprezzamento “a livello internazionale”. Tra le tante cose sottolineate quel riferimento al Piano Marshall: vale a dire la necessità di destinare risorse pari al 5% – due volte l’impegno di allora – del Pil Europeo: 800 miliardi di euro l’anno, nel tentativo di rompere l’assedio cinese e americano, che rischia di soffocarla. L’entità della cifra ha fatto scalpore, benché lo sforzo finanziario previsto fosse noto da tempo. Addirittura sancito in comunicazioni formali da parte della stessa Commissione europea.
Tra i tanti documenti, basta citare “la comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio” che data il 7 luglio dello scorso anno COM(2023) 376 final. “Complessivamente – era scritto nella comunicazione – per conseguire gli obiettivi del Green Deal e del piano RepowerEU serviranno ulteriori investimenti per un importo di oltre 620 miliardi di euro l’anno”. Colmare “la carenza di investimenti della Ue per la transizione costerà almeno 125 miliardi di euro l’anno”. Per la difesa “si prevedono altri 75 miliardi di euro da spendere da qui al 2025”. La ricostruzione dell’Ucraina “comporterà nei prossimi anni una spesa di 184 miliardi di euro a carico di tutti i partner”.
Tirando le somme, la spesa complessiva diventa pari a 820 miliardi di euro (un po’ meno dopo il 2025). Ma se si aggiungono gli interventi a favore dell’Ucraina, il totale sale ad oltre 1.204 miliardi. Quasi la metà dell’attuale Pil italiano. Il valore aggiunto dell’intervento di Mario Draghi non va quindi ricercato nel dato numerico, già noto agli addetti ai lavori, ma nel contesto in cui esso è collocato – quelle quattrocento pagine scarse di analisi e di proposte – nonché nell’autorevolezza di un personaggio, che non teme confronti. Quindi in una novità sostanziale che, tuttavia, pochi hanno saputo vedere. Nella comunicazione della Commissione, le spese previste avevano come motivazione quasi esclusiva il rispetto del Green Deal e degli impegni sul clima che soprattutto l’olandese, vice presidente, Frans Timmermans aveva brandito come una clava.
Massimo di ideologia e poco rispetto dell’evidenza empirica. Con le accuse, nemmeno troppo larvate, di pensare più agli interessi dei porti olandesi “ove sbarcano, con pochi controlli, le merci provenienti dal resto del mondo” che non alle sorti – si pensi solo al automotive – dell’industria europea. Nell’analisi di Mario Draghi la suggestione del green perde gran parte della sua centralità, per dar corpo a preoccupazioni che riguardano, invece, il costo dell’energia. Settore in cui la concorrenza americana, russa e cinese è spietata. In Europa, ricorda Draghi, il prezzo dell’energia elettrica è pari al doppio di quella americana. Mentre nel campo del gas naturale questa differenza può arrivare a 4 o 5 volte. Costi che impediscono strutturalmente alle aziende europee di competere. E peseranno ancora di più nei settori del domani, a partire dall’Intelligenza artificiale, che richiedono grandi consumi di elettricità.
Puntare sulle energie rinnovabili non è solo una prospettiva di carattere ambientale. È anche, se non soprattutto, una necessità di carattere economico, dato il loro minor costo di produzione. Che tuttavia non può essere ricondotto al solo ammortamento degli investimenti realizzati, ma anche alla necessità di adeguati interventi nelle reti e nello stoccaggio. Problema, quest’ultimo, ancora da risolvere in modo efficiente dal punto di vista tecnologico. Il limite delle rinnovabili è la loro intermittenza. Si calcola che il solare può produrre energia per 1.500 ore al giorno, l’eolico per 2.500; mentre le centrali tradizionali lavorano 8.760 ore l’anno. Il gap relativo, nel rispetto dell’ambiente, può pertanto essere annullato solo ricorrendo all’energia nucleare di nuova generazione. Un rischio per l’ambiente? Certamente; ma allora che dire del fracking che, negli Usa, vandalizza il territorio per ottenere lo shale oil o l’utilizzo intensivo del carbone nelle centrali cinesi?
Questi spunti non sono stati tuttavia sufficienti a eliminare i dubbi. Che esistevano, anche, in precedenza. Al punto dall’aver spinto la stessa Ursula von der Leyen a promettere, quanto prima, una revisione dei vecchi programmi legati al Green Deal, per tener conto delle esigenze più complessive dell’economia, rispetto all’indirizzo prevalentemente ideologico degli ambientalisti. Revisione che, con ogni probabilità sarà accompagnata, come lasciato intendere dai popolari per bocca dello stesso Manfred Weber, dall’individuazione di nuovi commissari, meno prigionieri dei passati schemi mentali.
I dubbi, come allora, riguardano il costo dell’intera operazione, considerato che un investimento di circa 800 miliardi l’anno non è proprio una bazzecola. In genere ci si trincera dietro un dito, dicendo che sarà compito dei privati investire nei nuovi settori. Ma anche volendo, se questo imperativo si fosse manifestato in passato, l’Europa non si troverebbe nelle condizioni descritte dal rapporto.
Occorrerà, pertanto, uno sforzo mai visto per prestarvi fede, che porterà inevitabilmente a dilazionare i tempi – altro che “Fit to ’55”, l’ambizioso progetto di ridurre di tanto le emissioni di gas serra nel 2030 – per consentire di abbattere i costi annuali dell’operazione. Un conto è investire 800 miliardi l’anno per 5 anni; un altro se l’intervallo si allunga riducendo di conseguenza la relativa quota. C’è poi la speranza – ne aveva fatto cenno Ursula nel suo discorso dopo la nuova nomina, ma anche Enrico Letta nel suo rapporto sul mercato interno – di poter utilizzare diversamente l’attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti dell’Ue. Negli ultimi 10 anni la media è stata pari a circa 300 miliardi l’anno: risorse che non avendo trovato occasione d’impiego in Europa sono defluite all’estero. Soluzione comunque problematica: potrebbe aver successo (ma non è detto) solo nell’eventualità di profonde riforme del mercato finanziario europeo (Capital Market Union). Qualche accenno era contenuto nel programma del Presidente della commissione. Ma mai, come in questo caso, tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare.
Si deve poi aggiungere che il nuovo contesto della governance europea chiude molti spazi. Le nuove regole sono più stringenti proprio in tema di debito pubblico. “Buono” o “cattivo”, per riprendere una vecchia definizione di Mario Draghi, non cambia. Va solo contenuto, anche se riflesso di investimenti in “chiave di beni pubblici europei”. Resterebbero quindi i safe bond, vale a dire la messa in comune del debito, secondo parametri da concordare. Qualcosa di simile ai vecchi eurobond, ma con una diversa caratterizzazione. Si tratterebbe di titoli, con rating AAA, emessi direttamente dalla Ue con un duplice scopo: finanziare il programma della resilienza europea; creare un titolo di credito capace di attirare, a livello internazionale, i capitali degli investitori ed i risparmi delle famiglie, garantendo loro un ritorno sicuro, nel medio e lungo periodo.
Ipotesi subito bocciata da Christian Lindner, il ministro delle Finanze tedesco, non perché inadeguata da punto di vista economico e finanziario (tutt’altro!), ma solo perché costretto a mostrarsi più realista di Afd, l’estrema destra del suo Paese che sta cannibalizzando il suo partito. Per contro, invece, alcuni investitori esteri, tra cui Elon Musk, si sono dimostrati molto interessati.
Poi ci sono state le critiche che hanno avuto una duplice valenza. Riflesso da un lato dell’anti-atlantismo, dall’altro reminiscenza di vecchie tesi liberiste che portano a considerare Mario Draghi un pericoloso sovversivo, che attenta alla purezza del verbo di Adam Smith. Sul piano politico le prese di distanza più dure sono venute da alcuni esponenti della Lega e dei 5 Stelle. Draghi che punta ad incrementare la sicurezza europea, anche dal punto di vista militare, è considerato un nemico di Putin. E quindi va fermato. Strano paradosso quello italiano: caratterizzato da una frattura profonda tanto nella maggioranza parlamentare che in seno all’opposizione. In altri momenti, la politica estera sarebbe stata un discrimine: con una maggioranza di centro sinistra convergente verso il centro e una giallo-verde rilegata all’opposizione.
Sul piano culturale invece sono intervenuti i liberisti, veri e puri, per dire ma chi è costui? La sua formazione è “di matrice rigidamente keynesiana”. Come se fosse una bestemmia. Eppure, per sua esplicita ammissione, quel grande economista si considerava un liberale, anche se aggiungeva di appartenere ad una classe colta. Tuttavia alcune di quelle critiche colgono, almeno, una differenza che, tuttavia, non riguarda tanto l’estensore del rapporto, quanto la fase storica che l’Europa sta vivendo.
Il confronto con gli Stati Uniti non si esaurisce nel presente. Richiama alla mente trascorsi ottocenteschi, quando il mondo di allora era dominato dal capitalismo inglese, sorto a Manchester e gli altri Paesi – la Germania in testa – cercavano una propria via di resilienza. Fu garantita da una presenza dello Stato che avrebbe poi portato alla costituzione di quell’economia sociale di mercato che ancora oggi rappresenta una caratteristica del modello europeo. Che Mario Draghi, con le sue ricette, vorrebbe salvare.