Secondo alcuni critici dell’interventismo americano, quella in Siria rientrerebbe a pieno titolo tra le cosiddette Resources Wars – ovvero quelle guerre dettate dalla volontà di uno o più attori di impossessarsi o controllare le risorse energetiche (ma, in generale, anche minerali o idriche) possedute in abbondanza da un paese o da una specifica regione. Secondo questo approccio, gli Stati Uniti e i loro alleati – in sostanza – sarebbero pronti a intervenire contro il regime di Assad per mettere le mani sulle riserve di petrolio e gas naturale presenti nel sottosuolo siriano.
In realtà, un’analisi (nemmeno troppo approfondita) delle riserve e dei tassi di produzione di idrocarburi del paese tenderebbe a smentire in modo categorico una tesi simile. Le riserve siriane di greggio ammontano a 2,5 miliardi di barili, lo 0,1% delle riserve globali, mentre la produzione – prima dello scoppio della guerra civile – si attestava sotto i 400mila barili al giorno, lo 0,4% del totale mondiale.
Molto simili sono anche i dati relativi al gas naturale: le riserve siriane ammontano a 300 miliardi di metri cubi – 0,2% del totale globale e metà dell’output annuale russo, con una produzione pre-crisi che si aggirava attorno agli 8 miliardi di metri cubi annui, pari allo 0,2% della produzione globale e più o meno sui livelli della produzione annuale italiana.
È, pertanto, ragionevole ipotizzare un intervento militare per avere accesso a un quantitativo così limitato di risorse energetiche? Pur senza scomodare i fallimentari insegnamenti delle campagne militari contro paesi produttori come Iraq e Libia, la risposta sembra essere decisamente negativa.
Le dinamiche regionali
Allargando l’orizzonte dell’analisi al contesto regionale, la competizione tra i principali attori energetici mediorientali può essere identificata come uno dei motivi dell’escalation della violenza in Siria. In questo contesto, l’obiettivo del potenziale intervento militare sarebbe un cambio di regime e l’instaurazione di un governo non soltanto vicino agli Stati Uniti, ma anche funzionale alla tutela degli interessi geopolitici ed energetici di quei paesi del Golfo storicamente alleati a Washington.
Paesi che, in primis, hanno l’obiettivo strategico di isolare l’Iran nel quadro regionale, privandolo del suo principale alleato e limitandone la proiezione sui mercati energetici globali. Principale oggetto della contesa – in questo contesto – sembrerebbe essere l’Islamic pipeline, il gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Iraq e Siria e trasportare 40 miliardi di metri cubi annui di gas naturale della Repubblica islamica alle porte dei mercati europei.
Nicolò Sartori è ricercatore dell’Area Sicurezza e Difesa dello IAI. Questo articolo è stato pubblicato su Agi Energia.