I Lep, livelli essenziali delle prestazioni, rappresentano uno dei temi più controversi delle proposte di autonomia regionale. In ambito culturale, la riflessione coinvolge numerosissime tematiche differenti. L’intervento di Stefano Monti
Ancor prima delle implicazioni legate al dibattito politico in corso, la tematica dei Livelli essenziali delle prestazioni propone, in alcuni ambiti ancor più che in altri, una riflessione ben più ampia della mera erogazione di livelli standard di servizio.
In ambito culturale, ad esempio, la riflessione coinvolge numerosissime tematiche differenti: la responsabilità del settore pubblico in termini di “clima culturale” all’interno dei territori, i livelli minimi di conoscenza che si ritengono essenziali all’interno di una popolazione, il ruolo del “settore pubblico” nella concreta determinazione delle previsioni costituzionali, e il ruolo del privato e dei singoli cittadini verso quelle stesse previsioni.
L’ampiezza delle tematiche impone ed esige che il dibattito venga affrontato al di fuori dei perimetri imposti da qualsivoglia lessico tecnico. I vocabolari che son propri di ogni disciplina, infatti, limiterebbero la visione generale, veicolando i ragionamenti su temi specifici che rischierebbero di deviare l’attenzione su quello che, in fondo, è il motivo per cui tali Lep sono stati ipotizzati.
Tali indicatori, infatti, costituiscono uno strumento che mira a semplificare (e approssimare) un fenomeno che è l’essenza stessa del nostro sistema sociale, e vale a dire le modalità attraverso le quali una comunità (i cittadini) decide di organizzarsi e affidare ad un soggetto costituito (lo Stato), la produzione e l’erogazione di determinati servizi al fine di perseguire un livello di benessere collettivo che non sarebbe altrimenti perseguibile (come nel caso dell’affidamento di tali servizi a soggetti privati).
Se da un lato è dunque essenziale identificare dei parametri-obiettivo, e degli indicatori di misurazione, dall’altro, tale operazione perde qualsivoglia utilità e ragion d’essere se si trascura la dimensione che si intende osservare e misurare.
Affermare, ad esempio, che la definizione di orari minimi di apertura dei musei può rappresentare un valido indicatore dell’impegno culturale “regionale” da garantire a tutti i cittadini, ha senso solo ed esclusivamente se ci si lascia travolgere dal tecnicismo, dal compito di dover identificare delle misure dell’esistente.
Ha senso, in altri termini, perché si inizia ad arginare il tema, come del resto è stato fatto, partendo dai precetti giuridici, ed iniziando dunque a valutare quanto in essere (la dichiarazione dei Musei come servizio pubblico essenziale recentemente ribadita per evitare che degli scioperi o delle riunioni sindacali costringessero il Colosseo a chiudere in un determinato giorno), per poi giungere, sulla base di quanto in essere, a stabilire che, in fondo, i Musei, per garantire un livello essenziale delle prestazioni ai cittadini, devono restare aperti un determinato numero di giorni e ore all’anno.
Con ciò non si vuol di certo sminuire il lavoro sinora svolto. Si tratta di un lavoro necessario, e che anzi deve essere perseguito e migliorato, così da poter garantire che la volontà politica dell’attuale esecutivo e dell’attuale parlamento, che sono espressioni della volontà dei cittadini, approntino le riforme che ritengono necessarie in modo adeguato alle reali esigenze del Paese, salvo poi la possibilità costituzionale che i cittadini hanno di dichiararsi non concordi con quanto stabilito dai loro rappresentanti.
Al di là del discorso tecnico, però, è chiaro che se si parla di prestazioni minime in ambito culturale, non di certo ci si può limitare al numero di ore di apertura. Bisogna piuttosto iniziare a chiedersi: quali sono i livelli minimi di cultura che il nostro Paese ritiene essenziale posseggano i suoi cittadini? Quali ambiti culturali si ritiene siano prioritari rispetto ad altri? E’ essenziale che i cittadini italiani visitino i musei? È fondante, per la nostra collettività, che gli italiani assistano a spettacoli di danza, di opera, di balletto, di teatro, di musica classica? Quanti libri è giusto che gli italiani leggano ogni anno?
E prima ancora, è giusto stabilire che un ente sovraordinato, quale lo Stato, identifichi tali metriche?
E successivamente, raggiunto un accordo minimo (che può riguardare un range di obiettivi), è lecito chiedersi attraverso quali strumenti, quali risorse, e attraverso quali personalità giuridiche è più efficace garantire un’offerta culturale che risulti adeguata a poter ottenere tali obiettivi.
Molti riterranno interventista e paternalistico l’approccio di uno Stato che stabilisce, ad esempio, quanti libri un cittadino italiano dovrebbe leggere ogni anno. Probabilmente la posizione di questi “molti” sarebbe anche ben argomentata, ma non bisognerebbe dimenticarsi che nel frattempo, obblighiamo gli italiani a trascorrere un numero di ore, per un lungo periodo di vita, sui banchi di scuola. E che questa scelta, interventista e paternalistica, è stata un’azione che tuttavia ha modificato notevolmente la nostra società.
Altre persone, e sarebbero probabilmente tantissime, potrebbero invece essere pienamente concordi nell’attribuire allo Stato maggiori poteri, ma dovrebbero tuttavia ricordare che ad alfabetizzare il nostro Paese non è stata soltanto la scuola dell’obbligo, ma anche la diffusione delle trasmissioni televisive.
Se dunque è socialmente condivisa l’idea che ci debbano essere dei livelli minimi di scolarizzazione, non dovrebbe risultare così tanto controversa l’idea di estendere tali livelli minimi anche al di fuori del percorso scolastico.
Né tantomeno dovrebbe risultare particolarmente controversa la consapevolezza che tali livelli minimi non dovrebbero essere indicati in modo coercitivo, ma attraverso meccanismi di stimolo positivo, quali un bonus economico proporzionale al numero di consumi culturali dimostrati durante l’anno, e attraverso la creazione di offerte culturali territoriali eterogenee e coerenti con le esigenze dei cittadini.
Una politica di questo tipo, ad esempio, consentirebbe non solo al settore pubblico, ma anche ai numerosissimi soggetti privati attivi all’interno dell’erogazione di spettacoli culturali, di conoscere con maggiore precisione i gusti, le aspettative, e le esigenze dei cittadini cui si rivolgono attraverso le proprie produzioni, fermo restando che tale dimensione informativa non costituirebbe un’imposizione quanto piuttosto un’indicazione utile in termini di sostenibilità.
Si tratta, ed è evidente, di una riflessione molto delicata, perché riguarda un tema che ben si presta, soprattutto nel nostro contesto nazionale, a derive ideologiche di seconda mano. E tuttavia, se inquadrata in uno scenario in cui si rende chiaro il ruolo del settore pubblico all’interno di questo tema, può rappresentare una rivoluzione sociale essenziale per il nostro Paese.
Dilagano, ad esempio, le conversazioni di cittadini che indicano nella conoscenza della lingua italiana un elemento fondamentale di inclusione dei cittadini provenienti da altre nazionalità. Meno frequenti, però, sono le medesime conversazioni sulla conoscenza degli italiani sulla propria storia. Poche sono le riflessioni che mirano a definire, per il bene del Paese (inteso per quanto possibile al di fuori di ogni concezione politica, quanto piuttosto sociale), quanto gli italiani dovrebbero conoscere la propria storia dell’arte, la propria arte contemporanea, il proprio cinema, le proprie eccellenze sportive, la propria letteratura.
Non si tratta dunque di imporre regole, di attribuire al governo maggiori poteri, né tantomeno di adottare strumenti amministrativi che di fatto trasformino in uno schietto obbligo la conoscenza dell’opera pittorica di Masaccio.
Si tratta piuttosto di un pungolo, che potrebbe essere rappresentato dalla realizzazione di un’analisi dei consumi culturali o legati al tempo libero delle persone, che da un lato abbia come risultato l’erogazione di bonus basati sul consumo (chi va più al cinema, avrà bonus per andare al cinema, mentre chi va più a teatro riceverà quegli stessi bonus per quello stesso motivo) e che dall’altro, tuttavia, non esoneri il settore pubblico a garantire una determinata offerta culturale eterogenea, così come attualmente fa.
Sul lato dell’offerta, e della diversificazione tra offerta pubblica e offerta privata, questo favorirebbe anche lo sviluppo di una serie di dimensioni diversificate: se in una piccola e media città, caratterizzata dalla scarsità di teatri, si dovesse scoprire che molti dei cittadini hanno assistito ad un numero di spettacoli elevato nei 12 mesi precedenti, sarebbero molte le compagnie amatoriali che tenterebbero di organizzare una rassegna in tal senso.
La delicatezza di queste argomentazioni è evidente. Così come è evidente che quanto proposto possa convincere alcuni e risultare inaccettabile per altri. Tuttavia, il punto della riflessione non era la correttezza degli argomenti qui portati, quanto piuttosto l’esigenza di includere, all’interno del dibattito pubblico sui livelli essenziali delle prestazioni, quell’insieme di tematiche la cui assenza non fa che trasformare i cosiddetti LEP in uno strumento burocratico semplicemente fine a se stesso.
Si tratta soltanto di ribadire, in modo molto semplice, una dimensione ovvia che attualmente viene del tutto ignorata: i modelli servono a semplificare la realtà, non a sostituirla.