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C’è del bullismo nella scuola nipponica? Il film “L’innocenza” raccontato da Ciccotti

Con “L’innocenza” (2023) Hirizaku Kore’eda ci porta in un istituto primario giapponese in cui forse un bambino bullizza un compagno di classe. O è il docente ad esser violento? O questi aizza i piccoli? Dov’è la verità? E, sottotraccia, un riservato amore tra due alunni, delicato come quello in “Le amicizie particolari” (1964) di Jean Delannoy. Un’intrigante, ma leggermente macchinosa, costruzione narrativa dai diversi punti di vista, tra Citizen Kane e Rashomon. La recensione di Eusebio Ciccotti

A molti critici è piaciuta la costruzione à rebours di L’innocenza (Koibutsu , lett. “Mostro”) di Hirizaku Kore’eda (premio per la migliore sceneggiatura a Cannes 2023), con alcuni passaggi del racconto nascosti ellitticamente ad una prima ricostruzione, che poi lo spettatore deve ricomporre ogni volta che la diegesi riparte da un altro punto di vista legati ai diversi personaggi (Citizen Kane e Rashomon, parrebbero i naturali riferimenti).

Il piccolo protagonista, Minato, torna a casa con dei lividi, pare sia stato l’insegnante. La madre, single (così nel doppiaggio: in realtà è vedova), Saori, il giorno dopo si reca a scuola. Vuole capire chi e perché picchi suo figlio. Non è creduta dall’insegnante presunto colpevole. Il docente non accetta l’accusa e si lamenta delle mamme single “le quali esagerano sempre”. Anche la preside non sa intervenire. Per evitare che la storia esca dalla scuola, l’insegnante chiede scusa con un lungo inchino. Saori va via non soddisfatta.

Poi il racconto riparte con la versione del docente incolpato e il film ci mostra come le contusioni di Minato siano accadute per involontari incidenti. Una terza versione propone Minato come bullo nei confronti di un altro bambino, ancor più delicato, Yori, in una sorta di Rosso Malpelo yamatologo. In effetti anche le contusioni riportate da Yori sono dovute a involontari incidenti scolastici.

Parallelamente alla questione del “presunto” bullismo il regista fa scorrere sottotraccia un altro tema: l’intenso ma riservato affetto che lega Minato e Yori, di cui improvvisamente lo spettatore viene a conoscenza quando tutta la classe inizia a sfotterli, chiamandoli in coro, “Piccioncini! Piccioncini! A Minato non piacciono le bambine!”. Qui Kore’eda ci sorprende con una inattesa svolta narrativa lanciata come una staffilata sullo spettatore.

I due piccoli amano rifugiarsi in una vecchia carrozza di tram abbandonata nel bosco, e si divertono nel fingere di guidarlo, verso altri mondi. Quel loro mondo li protegge dai grandi e dai cattivi compagni di classe. Esattamente come nella serra di Le amicizie particolari (Les amitiés particulières, 1964) di Jean Delannoy, dove si rifugiavano Alexandre e Georges, anche loro innocentemente innamorati l’uno dell’altro. Minato e Yori sognano la reincarnazione, magari nello sconfinato mondo del cielo, come nelle storie animate di Hayao Miyazaki.

Kore’eda, quando può, lancia la camera plasticamente in lunghe carrellate a controbilanciare gli angusti spazi della scuola o della casa popolare in cui vive Minato con la mamma. Si veda la prima fuga in carrello del protagonista verso il bosco come anche quella finale di Minato e Yori, dopo l’uragano, fuori dal vagone abbandonato, nel verde dei prati colorati dai fiori. Una chiusa metafisica verso il paradiso: una carrellata nella natura che ha tutto il respiro del cinema europeo (soluzioni simili le abbiamo incontrate, per esempio. in Andrej Tarkowski, Maurice Pialat o Agnieszka Holland).

L’innocenza è inequivocabilmente un originale racconto sul bullismo nelle classi primarie, sull’assurdo formalismo nella scuola, sui pregiudizi verso le madri single, sul tema delle “amicizie particolari” nell’infanzia: argomenti ancora da affrontare nella cultura nipponica.

Intrigante, è innegabile, la forma del racconto declinata narratologicamente dentro una inedita lettura filmica della teoria del punto di vista. Ognuno racconta l’accaduto dalla posizione fisica avuta quando ne è stato testimone. Ossia, come lo ha visto, o se volete, “inquadrato” (e infatti Kore’eda, ad esempio, inquadra fuori asse, non completa, la soggettiva del docente circa la caduta di Minato sulle scale interne della scuola, di cui ora il docente appare oggettivamente non responsabile): ma siccome ogni “testimone” ha visto parzialmente il fatto, esso è parzialmente vero e non falso.

Siamo nella definizione del punto di vista proposto da José Ortega y Gasset: ognuno vede la Sierra de Guadarrama dalla sua posizione; ognuno vede però una sezione della Sierra ma tutti concordano che è la Sierra de Guadarrama, pur non avendo nessuno la visione completa della Sierra de Guadarrama. Eppure ognuno è convinto di aver visto tutta la Sierra de Guadarrama.

Nonostante lo sforzo narrativo nell’andare oltre Citizen Kane la diegesi trasmette inevitabilmente un qualcosa di artificioso proprio nella costruzione à rebours della sceneggiatura (scritta in tre anni da Yūji Sakamoto), forse troppo insistita nei vuoti che lo spettatore medio fa dura fatica a colmare. Un sottile cigolio nel meccanismo che tutto sommato non inceppa un racconto in cui la ottima direzione dei giovani attori deve tutto al cinema di Yasujirō Ozu e di Vittorio De Sica.


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