Skip to main content

Vermiglio, una storia d’amore e silenzi. La recensione di Ciccotti

Unendo un taglio da documentario a passaggi narrativi da cinema postmoderno, Maura Delpero (Vermiglio, 2024, Leone d’Argento a Venezia) racconta una semplice storia quotidiana dal finale a sorpresa che ci scalda senza rapirci. La cura eccessiva della fotografia da kammerspiel, i troppi interni, raggelano l’azione di un racconto che a tratti si colloca tra Ermanno Olmi e Sandrine Veysset

Durante la seconda guerra mondiale nel paesino di Vermiglio (Trentino) la comunità nasconde nei boschi limitrofi al villaggio un “disertore” (secondo la RSI) italiano, originario della Sicilia. Di lui, Pietro, timido e silenzioso, dallo sguardo profondo (Giuseppe De Domenico: una buona performance in sottrazione), si innamora Lucia (Martina Scrinzi: sempre perfetta ed equilibrata), la figlia più grande del bravo e severo maestro del villaggio, Cesare (Tommaso Ragno: superbo), a capo di una numerosa famiglia. I due giovani si sposano. Pietro, finita la guerra, rientra in Sicilia per andare “a trovare la madre e poi tornare”. Ma dai giornali si apprenderà che era un bigamo (senza saperlo): ed è stato ucciso dalla sua “legittima” moglie. Di questa storia rimarrà una bellissima figlia che Lucia, con il suo amore, coraggiosamente, crescerà lavorando e con l’aiuto dell’orfanatrofio.

Vermiglio (2024), Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, scritto e diretto da Maura Delpero, apprezzato dalla critica, ha diverse qualità, anche di ricerca avanguardistica (vedi la fotografia), da renderlo senza esito un film originale, ma che non bastano a trasformarlo in un piccolo capolavoro.

I temi di Vermiglio sono diversi e non scontati nel panorama del cinema italiano: la difficoltà della lingua in un’Italia lontana da quell’unione linguistica (per Tullio De Mauro, ce lo ripeteva quasi sardonicamente a lezione, inizierà “con la televisione, negli anni Sessanta”: ma il primo ad affrontare il tema nel cinema fu Francesco Rosi in Uomini contro, 1970); il ruolo della famiglia patriarcale; i regolari ritmi della vita di una piccola comunità montana pur durante le ristrettezze della guerra; il motivo del maestro del villaggio con i propri figli nella classe (accadeva in molti piccoli paesi: ma il cinema lo aveva dimenticato); l’italiano “straniero” accolto in una realtà completamente diversa. Con temi di tale originalità, la sceneggiatura si presentava imbattibile.

È nella regia che il bel soggetto, ma ci possiamo sbagliare, scegliendo l’eccessiva presenza del kammerspiel nelle scene di famiglia, rallenta il ritmo non aggiungendo motivi a quelli che lo spettatore già acquisisce sin dai primi secondi di una scena. Va apprezzata certamente la cura della fotografia con l’illuminazione a candela, ma andava evitata la preponderanza di tali interni semi-bui. Riusciti invece gli interni, a giorno, della vita scolastica: qui grazie anche ad un dialogo didatticamente brillante e alla presenza di un grande attore quale è Tommaso Ragno.

Trasmettono respiro al film i rari esterni nel villaggio o nella natura. Si ricordi la lirica sequenza della festa di matrimonio all’aperto nel villaggio, che ci rimanda al mondo contadino di un Bernardo Bertolucci in Novecento, per noi italiani: o al cinema di Jurai Jakubisko (L’ape millenaria, 1983), pensando al mondo slavo. Oppure all’uso della cifra documentaria: quando Lucia, dopo aver appreso la triste notizia, fuori di sé, deambula nel bosco: la splendida panoramica basso-alto, in campo lungo, sulle cascate traduce il suo folle tumulto interno. Delicata la resa del silente amore tra Pietro e Lucia: ci rimanda alla tenerezza di alcune scene di Sunrise (1927) di F.W. Murnau.

Delpero mostra un’indiscutibile intuizione nel seguire i ritmi della vita di un villaggio che vive di poco: del latte delle mucche e delle riserve alimentari messe da parte durante la bella stagione per affrontare gli innevati autunni e inverni. Quasi scandendo le ore. Non siamo lontani dalla poesia di Ermanno Olmi. Nella parte finale, Delpero, aggancia un inopinato viaggio in Sicilia di Lucia, abbandonando lo stile neorealista per una soluzione postmoderna, non necessario alla chiara diegesi.

Dispiace solo, lo ripetiamo. che rimangano fuori da una sceneggiatura “espressionista” quelle aperture al ritmo del quotidiano negli esterni, alla luce della natura, presenti, per esempio, in Y aura-t-il de la niege à Noël? (1996, Sandrine Veysset), e che Delpero, purtroppo, tocca di striscio.



×

Iscriviti alla newsletter