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Medio Oriente e Ucraina, la sfida del Consiglio Ue è la politica estera comune. Parla Fabbrini

Migrazioni, politica estera e competitività. Le comunicazioni della premier Meloni al Parlamento lasciano presagire un Consiglio europeo piuttosto acceso. Ma il problema dell’Ue è l’assenza di una politica estera comune che le permetta di essere incisiva sui principali dossier: dal conflitto in Ucraina, passando per quello in Israele. E sulla competitività l’Italia ha la possibilità di incidere positivamente. Colloquio con il politologo Sergio Fabbrini

Politica estera, migrazioni e competitività. La seduta di Consiglio europeo di giovedì e venerdì si presenta con un ordine del giorno piuttosto ricco come ha fatto chiaramente capire la premier Giorgia Meloni nelle sue comunicazioni al Parlamento. Attenzione, però. Non facciamoci ingannare dai titoli altisonanti. Il rischio, secondo quanto il politologo Sergio Fabbrini dice a Formiche.net, è quello di realizzare un Consiglio europeo “incapace di incidere negli assetti geopolitici, in assenza di una politica estera comune”.

Fabbrini, la politica estera comune resta una chimera dalla sua prospettiva. Ma qual è il rischio di questa disomogeneità su dossier chiave come il conflitto in Ucraina?

Sul dossier Ucraina si manifestano tutte le ambiguità dall’Unione europea. Si prosegue con questa linea ambigua, che prevede il sostegno economico ma la totale incapacità di essere determinanti nella risoluzione del conflitto. Peraltro sostenendo una posizione che, ai miei occhi, è del tutto inutile ai fini di preservare la sicurezza dell’Ucraina. L’obiettivo, dal mio punto di vista, deve essere l’adesione dell’Ucraina alla Nato più che all’Unione europea.

Sono tanti i fronti caldi. Il Medio Oriente resta una priorità d’agenda. Cosa uscirà dal Consiglio?

In Ue ci sono posizioni molto differenti ed eterogenee sul conflitto in Israele e in particolare sul sostegno o meno al governo Netanyahu. Ma, anche su questo dossier delicatissimo, l’Unione europea sconta una sostanziale incapacità di essere incisiva. E l’Italia non fa eccezione perché continua ad avere un atteggiamento da un lato favorevole (giustamente) alle istanze di Israele, dall’altro ambiguo e attendista sui palestinesi. Se la soluzione è quella dei due popoli e due stati, occorre lavorare concretamente in questa direzione. Sennò, sia Ue che Usa si trasformano in bancomat. L’una sul versante dei fondi, l’altra sul versante più militare oltre che economico.

Anche sull’Immigrazione le ambiguità non mancano. 

No, perché il problema è sempre quello. Non esiste un luogo di concertazione che produca una linea comune su questo tema. L’esempio della Polonia che ha espressamente detto che chiuderà le frontiere è molto chiaro. Il punto è che si assiste a una sommatoria di strategie nazionali che non sono unitarie perché ogni Paese ha esigenze differenti anche in ragione del proprio posizionamento geografico.

Il documento di Mario Draghi esprime una serie di strategie per rilanciare la competitività europea. Almeno su questo, è ragionevole immaginare una strategia comune?

Potrebbe esserci e l’Italia in questo senso avrebbe l’opportunità di esercitare un ruolo chiave, proponendo un nuovo modello di strategia sulla competitività. Meloni ha la stabilità e la possibilità di farlo. È una questione di volontà e di capacità di incidere a livello europeo.

Sotto questo profilo oggi il premier ha espresso l’auspicio che l’indicazione del ministro Fitto come vicepresidente della Commissione possa raccogliere l’appoggio anche delle forze di opposizione. Lei come la vede?

Fitto è senz’altro un’indicazione idonea a ricoprire quell’incarico per una serie di ragioni a partire dalla sua formazione e dai ruoli politici che negli anni ha ricoperto. Ma c’è un punto che va chiarito. Fitto non sarà il rappresentante del governo italiano, sarà il rappresentante della Commissione europea e delle sue istanze.



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