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La forza tranquilla del coraggio

Quando trascorro le ore a parlare con i miei studenti di filosofia, ci sono due concetti che ricorrono spesso nelle nostre conversazioni: la responsabilità e il coraggio. Nella loro mente il coraggio è quasi sempre associato all’eroismo e alla rottura delle regole: è l’atto forte che stravolge l’ordine delle cose, è l’imposizione del soggetto nell’ordine costituito. L’azione coraggiosa è quella osata, rischiosa, azzardata. L’eroismo è nella forma del primato individuale, del relativismo soggettivo. Il coraggio viene interpretato come forza, fisica e morale, come evidenza a se stessi: coraggioso è chi non ha dubbi, su di sé o sulle proprie azioni. È il coraggio di Achille, l’eroe invincibile, o il coraggio di Ettore, il perdente, nel paradigma dell’Iliade omerica.
 
Talvolta abbiamo invece ragionato tutti insieme a proposito di un’altra interpretazione del coraggio: e se esso fosse la virtù dei “fedeli”, piuttosto che quella degli eroi? Fedeli a se stessi, alla propria identità da realizzare; fedeli alle proprie idee mediate con il mondo; fedeli alla comunità, al rispetto delle circostanze, delle missioni da condividere. Questa dimensione del coraggio appartiene ad un soggetto debole, la cui debolezza non è però inferiorità, ma è anzi la grande forza di chi sa di dover mediare con il mondo perché si è già scoperto appartenente ad esso, non autosufficiente, non illeso imperatore di se stesso, ma semplice soggetto costretto suo malgrado a camminare con gli altri soggetti nello scambio dell’esistenza e perciò capace di dubitare delle proprie certezze.
 
Il coraggio è allora l’iniziativa silenziosa e misurata, senza clamore, senza onori e senza paura. È il coraggio di Aiace, che nascosto nelle file mediane degli achei muoveva la sua battaglia contro Ilio, fedele al suo esercito, al suo compito, al suo valore; senza essere un semidio come Achille, senza essere l’erede di Troia come Ettore. Era Aiace detto il “coraggioso”, l’indispensabile, l’affidabile.
L’antropologia della finitudine umana deve insegnare questa forma del coraggio se vuole servire la causa della democrazia: pensarsi nel segno umano della fragilità, aiuta a pensarsi capaci di un coraggio non eroico e non soggettivo, ma capaci di un coraggio sociale, che lega il soggetto alla comunità, proprio perché è coraggio riconosciuto dagli altri e per gli altri.
 
Su questa medesima strada troviamo il principio di responsabilità. Per copiare John Rawls che a proposito della giustizia scrisse che è “il primo requisito delle istituzioni sociali”, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero, potremmo dire che la responsabilità è il primo requisito dell’etica pubblica. Ma occorre chiedersi preliminarmente come facciano i giovanissimi a capire il valore della responsabilità.
È inutile ricorrere alle dottrine e alle ideologie: se nel nostro Paese continuiamo a perpetrare lo scontro/incontro tra visioni antropologiche di fede e laiche per poter dare sostanza al principio di responsabilità, continueremo ad alienare tanta parte di menti giovani pensanti, violentandoli in una coercizione dottrinale verso la quale hanno giustamente maturato anticorpi potenti.
 
Leggendo con loro la Retorica di Aristotele abbiamo scoperto che molti secoli prima dell’avvento del cristianesimo e prima della organizzazione del diritto romano su cui poggia le basi la nostra definizione di forma sociale, Aristotele prepara il buon politico alla giusta retorica pubblica insegnandogli che “il fine del discorso è diretto all’ascoltatore”, e precisa che l’ascoltatore non solo è uno spettatore, ma è “colui che decide”. Ecco il cuore del principio di responsabilità, il messaggio che arriva diretto alle menti dei giovani cittadini: gli uomini sono coloro che decidono, la polis è fatta di centri decisionali, e solo a partire da essi si costruisce la virtù, la vita buona. Il retore parla ad essi non come soggetti passivi del dibattito pubblico, ma come centri di decisione attiva, come soggetti di scelta.
La responsabilità è allora risposta, tutela e rispetto di quel potere di scelta e di decisione. Questo legame delle azioni alla responsabilità, offre da una parte la garanzia della dignità del soggetto che si riconosce nelle sue azioni, e dall’altra la garanzia della responsabilità verso gli altri come analoghi centri decisionali di cui tenere conto.
 
La responsabilità come legame tra la decisione e l’azione che incide nel presente e nel futuro, torna in modo incisivo nelle pagine del filosofo Hans Jonas, che scrivendo nel Novecento il suo famoso Il principio responsabilità, prima ancora di definire la responsabilità aveva ritenuto urgente la formulazione di una nuova teoria etica, in tempi in cui la crisi delle morali religiose e lo sviluppo delle scienze ha posto problemi di scelte totalmente nuove. Jonas coglie la questione sottesa ai nostri sistemi politici: le nostre democrazie teorizzano la politica in termini di diritti, e dunque con una prospettiva universalista, ma poi la praticano in termini di utilità, e quindi in modo particolaristico, perché l’utile è sempre di una nazione contrapposta alle altre, oppure, all’interno di un gruppo, è l’utile di determinate categorie che mirano alla difesa dei propri interessi.
 
Il governo auspicato da Jonas è capace di offrire risposte e competenze tecniche, ma “sorvegliate” da un progetto universalistico che ne assuma la responsabilità, evitando anche i disastri ecologici irresponsabili che mettono in pericolo la stessa sopravvivenza del genere umano.
Ecco perché sia il coraggio che la responsabilità richiedono che si costruisca preliminarmente la deliberazione cosciente degli individui, la loro “passione di pensare” direbbe Hanna Arendt, la passione della libertà di scegliere. Impegniamoci allora a costruire questo primo passo, lasciando da parte ideologie e dottrine, e nascerà una nuova generazione di impegnati nella vita buona “con gli altri e per gli altri all’interno di istituzioni giuste”, come scrive il maestro Paul Ricoeur.


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