Se l’impatto della manovra sulla crescita è modesto, quello per la stabilità finanziaria potrebbe essere più consistente qualora l’attuazione del piano di bilancio fosse priva di deviazioni, e non intervenissero eventi straordinari con significative ripercussioni negative sui due lati del bilancio. L’analisi di Salvatore Zecchini
Il recentissimo Documento Programmatico di Bilancio svela per la prima volta l’interfaccia operativa del Piano Strutturale di Bilancio presentato il 27 settembre scorso. Pur concentrandosi sull’impostazione del bilancio pubblico nel prossimo anno, prefigura l’andamento dei macroaggregati di finanza pubblica per il biennio seguente sulla base delle prospettive macroeconomiche assunte come ipotesi di base. Si tratta di un’impostazione molto finemente calibrata, che mira a contemperare gli obiettivi di sostegno ai redditi meno elevati con l’esigenza di alimentare un’espansione del reddito potenziale e della crescita effettiva che poggia su tre componenti, investimenti fissi, consumi ed esportazioni nette.
La difficoltà di questo esercizio sta nel vincolo di osservanza delle nuove regole sulla governance economica europea, che intendono ricondurre la politica economica nazionale verso un sentiero di sostenibilità finanziaria nel medio termine. Non è la prima volta che i governi italiani hanno dovuto affrontare queste difficoltà, ma la loro intensità è particolarmente acuta in questo caso per la ristrettezza dei margini di flessibilità e per la durata settennale dell’impegno che si svolge lungo un percorso in buona parte predeterminato. Per valutarne l’intensità bisogna riandare alle manovre adottate nel 1974 per il programma standby col FMI, nel 1992 per la grave crisi monetaria e nel 2011-12 per la crisi del debito sovrano. Questa volta il governo non si trova sotto l’urgenza di una crisi, bensì deve prevenire che ne emerga una a causa di un debito pubblico elevato e apparentemente incomprimibile.
L’impostazione di bilancio di questo governo si presenta attentamente studiata per sfruttare tutto lo spazio di manovra concesso dalle regole, con la conseguenza che i limiti quantitativi che esse pongono sono divenuti di fatto obiettivi nella manovra. Malgrado questa scelta, le probabilità di successo della nuova modalità di politica economica entro le regole dell’Ue sono legate alla capacità di conciliarle con gli altri obiettivi di carattere sociale, di accelerazione della crescita e di maggiore impegno per la difesa in un contesto geopolitico pieno di tensioni. Ha altresì rilevanza il quadro macroeconomico di partenza su cui si costruiscono le proiezioni per il triennio.
La previsione del governo sulla posizione iniziale, data dai risultati macroeconomici dell’anno in corso, sconta un certo ottimismo quanto alla crescita e al saldo commerciale, che non è condiviso dai maggiori centri di analisi. Il DPB si attende un incremento del Pil dell’1%, mentre la Banca d’Italia parla di 0,8%, una dinamica dei prezzi superiore al dato previsivo della banca centrale e una diversa configurazione dei fattori trainanti della congiuntura attuale. Il primo vede un ruolo rilevante per la domanda estera netta e uno minore per quella interna; la seconda stima, invece, un contributo importante della componente interna, soprattutto i consumi e uno non significativo della componente estera. Nel biennio successivo i due andamenti presentano differenze che non modificano sostanzialmente il quadro cumulato su tre anni.
Le diversità di proiezioni confermano la natura probabilistica delle ipotesi a base della strategia ed indicano la possibilità di deviazioni di percorso nel corso degli anni, che richiederanno aggiustamenti delle politiche. La manovra di bilancio per il 2025 dispone maggiori spese per 30 miliardi, di cui il 70% (21 miliardi) troverà copertura nei tagli di altre spese e in maggiori introiti, e il restante 30% (9 miliardi) sarà a carico del deficit, con ripercussioni al rialzo per il debito pubblico. Di riflesso, il rapporto debito/Pil lungi dal diminuire salirebbe al 136,9% del Pil e continuerebbe nel 2026 per attestarsi al 137,4% nel 2027. Vi contribuisce tra l’altro la spesa primaria netta, indicatore cardine per l’Ue nella sorveglianza del percorso di aggiustamento, che lieviterebbe dell’1,3% del Pil, benché depurata di componenti pari al 4,7% del Pil. Il disavanzo, d’altronde, scenderebbe solo di mezzo punto percentuale di Pil, come minimo richiesto dalle regole (da 3,8 a 3,3% Pil).
La strategia, pertanto, si configura come una forma di atterraggio morbido dagli squilibri, che non intacca sostanzialmente il macigno del debito nel settennio del programma. Alla fine del decennio corrente la sua incidenza sarebbe di circa 134,9%, prossima al 134,8% del 2023. In altri termini, dopo sette anni di aggiustamenti si tornerebbe al valore di partenza, seppure con un saldo primario positivo per 2,4% del Pil; quindi, si rimarrebbe sempre sotto il giudizio dei mercati finanziari, il cui atteggiamento è condizione per il rifinanziamento a costi sostenibili. La contropartita di questa strategia dovrebbe essere una crescita più consistente dei ritmi attorno all’1% annuo, visti nel recente passato. Un simile risultato, tuttavia, non si vede nelle proiezioni governative sino alla fine del decennio. Lo si scorge, invece, nelle simulazioni econometriche degli effetti del Pnrr, che si estendono agli anni ‘30 del secolo e a cui peraltro si accompagna un ampio margine di incertezza sul verificarsi della stima. Una contropartita si otterrebbe anche in termini di riduzione della pressione fiscale rispetto all’andamento tendenziale a politiche invariate, pressione che sarebbe mantenuta stabile al 42,3% del Pil, piuttosto che lasciarla salire al 42,8%.
Resta materia di riflessione la constatazione che ancora nel 2025 la spesa pubblica si commisura a oltre la metà (50,4%) del prodotto del Paese. Quali funzioni effettivamente è chiamata a volgere nel 2025 e quale capacità ha di alimentare i fattori di espansione delle attività economiche, origine della prosperità del Paese? Verso quali funzioni si ripartiscono gli interventi della manovra?
In primo piano sono la promozione dell’occupazione e l’innalzamento dei redditi medi da lavoro dipendente. Nuove risorse sono destinate a incentivare il lavoro e l’assunzione di lavoratori particolarmente delle categorie meno favorite (donne e giovani) e nelle regioni del Mezzogiorno. Gli strumenti impiegati sono diversi: deduzioni fiscali, incentivi per le imprese, per l’autoimpiego e per ritardare il pensionamento. Per favorire i redditi medi si rendono permanenti o strutturali la riduzione del cuneo fiscale mediante un mix di decontribuzione e detrazioni di imposta, e la ristrutturazione a tre delle aliquote d’imposta dell’IRPEF. La spesa per questi due interventi ammonta a circa 13 miliardi. In analoga prospettiva si collocano la detassazione dei fringe benefits concessi dalle imprese e, per estensione, i fondi per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici.
Un altro gruppo di misure ha carattere assistenziale e rientra nella categoria del welfare. Tra queste il bonus natalità e l’incremento di 900 milioni della dotazione per la sanità, che va a sommarsi all’aumento previsto dalla legislazione vigente. Tra le altre misure un bonus per le famiglie meno abbienti, l’adeguamento delle pensioni in misura differente a seconda del livello di reddito e la riconferma del bonus fiscale per le ristrutturazioni delle abitazioni (al 50% per la prima casa). L’insieme degli interventi per il lavoro e il welfare assorbirebbe gran parte delle risorse mobilitate dalla manovra, col risultato di rinforzare la domanda interna per la parte corrente, ovvero essenzialmente i consumi.
Può interpretarsi questa allocazione di fondi come uno stimolo alla crescita? Nel breve termine è plausibile se la spesa aggiuntiva dei privati viene concentrata sulle produzioni interne e se innesca un meccanismo moltiplicativo sul prodotto nazionale con possibili effetti secondari di accelerazione degli investimenti. Una parte di questa spesa defluirebbe a vantaggio dell’estero attraverso il canale delle maggiori importazioni. Nel medio periodo, invece, l’impatto sulla crescita sarebbe più incerto in quanto non ha il potenziale che in genere si attribuisce alla spesa per investimenti e alla detassazione degli utili di impresa.
Su quest’ultimo versante gli interventi aggiuntivi sono pochi e limitati nella portata. Comprendono stanziamenti per i contratti di sviluppo, i progetti d’innovazione, le agevolazioni della legge Sabatini, la decontribuzione per le imprese che si stabiliscono nella ZES, flat tax sui premi di produttività e l’integrazione della dotazione del Fondo di Garanzia per le PMI. Di contro, viene eliminata l’ACE che incentivava il reinvestimento degli utili da parte delle imprese. L’effetto sulla dinamica del Pil potenziale è stimato tra 1,3% e 1% annuo, un risultato non incoraggiante sulla dinamica futura, anche per il contributo marginale che vi darebbe l’incremento della produttività multifattoriale (0,1% annuo). Per la parte degli investimenti fissi pubblici, nondimeno, è positivo che siano mantenuti al 3,4% della spesa pubblica, anche per effetto degli impegni presi nell’ambito del Pnrr e dei Fondi europei di coesione.
Se l’impatto della manovra sulla crescita è modesto, quello per la stabilità finanziaria potrebbe essere più consistente qualora l’attuazione del piano di bilancio fosse priva di deviazioni, e non intervenissero eventi straordinari con significative ripercussioni negative sui due lati del bilancio. In questa evenienza o nel caso di deviazioni dal percorso tracciato non è dato conoscere su quali partite avverrebbe la correzione. In passato vi era una clausola di salvaguardia che permetteva di agire agevolmente sull’Iva e che oggi non è più disponibile. Né va trascurato che fuori bilancio vi sono passività potenziali dovute a esposizioni garantite dallo Stato, valutate a 13,34% del Pil. In definitiva si può dire che la politica di bilancio per il prossimo anno è stata stilata con un fine equilibrio tra esigenze contrapposte, non avrà significativo effetto nell’accelerare la crescita e richiederà un’esecuzione a filo di rasoio per la credibilità del Paese.