Il premio Nobel per l’Economia è stato assegnato agli economisti del Mit Daron Acemoglu e Simon Johnson, il cui lavoro ha illuminato il rapporto-ruolo tra sistemi politici e crescita economica. “Le società con uno stato di diritto inadeguato e le istituzioni che sfruttano la popolazione non generano crescita né cambiano in meglio”, è la motivazione dell’Accademia Reale delle Scienze svedese. La ricerca ha dimostrato empiricamente che le democrazie, che rispettano lo stato di diritto e garantiscono i diritti individuali, hanno stimolato una maggiore attività economica negli ultimi 500 anni. La riflessione di Stanislao Chimenti
La cronaca nazionale e internazionale pone quotidianamente questioni e problematiche sempre più drammatiche che travalicano i confini nazionali e, nel mondo contemporaneo, assumono molto presto dimensioni globali.
Sotto questo peculiare angolo prospettico è emblematico il tema delle migrazioni che da decenni sta investendo l’area europea.
Al di là di soluzioni di chiusura e intransigenza che non sembrano avere prospettive di lungo respiro, si afferma da più parti la necessità di risolvere il problema provando a risolvere le cause di profondo disagio – o meglio, di vera e propria sofferenza – che generano le migrazioni da Paesi economicamente arretrati, politicamente instabili o governati da regimi oppressivi che non tutelano diritti fondamentali né libertà personali ed economiche.
Non pare un caso, del resto, che il premio Nobel per l’Economia sia stato assegnato la scorsa settimana agli economisti del MIT Daron Acemoglu e Simon Johnson, il cui lavoro ha illuminato il rapporto-ruolo tra sistemi politici e crescita economica. Anche il politologo James Robinson dell’Università di Chicago, con il quale hanno lavorato a stretto contatto, ha condiviso il premio.
“Le società con uno stato di diritto inadeguato e le istituzioni che sfruttano la popolazione non generano crescita né cambiano in meglio”, ha dichiarato l’Accademia Reale delle Scienze svedese nella citazione del Nobel. “La ricerca dei vincitori ci aiuta a capire perché”.
La collaborazione di ricerca a lungo termine tra Acemoglu, Johnson e Robinson, che risale a più di due decenni, ha dimostrato empiricamente che le democrazie, che rispettano lo stato di diritto e garantiscono i diritti individuali, hanno stimolato una maggiore attività economica negli ultimi 500 anni.
È anzitutto interessante notare come i più sofisticati studi economici del momento siano orientati a un approccio multidisciplinare e omnicomprensivo.
In altri termini, fermo restando l’elevato livello del tecnicismo settoriale, gli studiosi di macroeconomia non possono limitarsi a un approccio circoscritto alle mere scienze strettamente economico-matematiche, ma debbono sempre più avvalersi di metodologie proprie di altre discipline quali le scienze politiche, il diritto e, soprattutto, la storia.
Come ha dichiarato proprio Acemoglu a MIT News, gli studiosi hanno usato la storia “come una sorta di laboratorio, per capire come diverse traiettorie istituzionali abbiano diversi effetti a lungo termine sulla crescita economica”.
Da parte sua, Johnson ha detto a proposito del premio: “Spero che incoraggi le persone a pensare attentamente alla storia. La storia è importante”. Ciò non significa che il passato sia determinante, ha aggiunto, ma piuttosto che è essenziale comprendere i fattori storici cruciali che modellano lo sviluppo delle nazioni.
La chiave delle ricerche economiche più avanzate è, a ben vedere, proprio questa: l’attenzione al problema della storia, cioè lo studio storico dei problemi attuali.
Va da sé che questo approccio non può risolversi nel mero storicismo o in forme di determinismo meccanico. I fenomeni storici sono estremamente compositi perché attengono a sistemi estremamente complessi, ricchi di variabili difficilmente calcolabili. La tradizione umanistica italiana di Vico non è evidentemente riproponibile in forme ingenue che vedano la storia come il susseguirsi di meri “corsi e ricorsi”. In definitiva la finalità di ogni scienza è l’obiettivo della previsione. Ogni scienza aspira ad essere una scienza non tanto e non solo esplicativa ma anche e soprattutto predittiva. Le scienze fisiche “classiche” hanno esibito risultati strabilianti in questo campo, godendo ad esempio del supporto della matematica; le scienze sociali, invece, non possono appoggiarsi a fondamenta altrettanto solide perché, al centro delle questioni si pone pur sempre l’uomo, cioè la realtà più complessa possibile.
La storia però è e resta “maestra di vita” perché è impossibile, ad esempio, adottare politiche economiche se non si ha conoscenza approfondita del come e, soprattutto, del perché certe realtà, certe nazioni, certi paesi si trovino oggi in determinate condizioni e non in altre.
A tale proposito sono proprio illuminanti le conclusioni cui sono approdate le ricerche da ultimo premiate con il Nobel. In estrema sintesi, questi studi collegano la crescita economica a fattori genetici quali l’applicazione dello stato di diritto (in ambiente anglosassone la “rule of law”), la democrazia, la tutela del diritto di proprietà.
L’utilizzo superficiale e “astorico” di tali conclusioni, tuttavia, rischia di divenire una trappola.
Difatti, ogni realtà sociale, ogni nazione, ogni governo è approdato a una “propria” nozione di stato di diritto, a una propria versione della democrazia, a una propria tutela della proprietà.
Tali approdi sono appunto l’esito di processi storici che, per di più, sono in continua evoluzione.
Il diritto di proprietà pensato da Locke nell’Inghilterra liberale del Seicento non è certamente quello del codice napoleonico, né quello di un odierno stato non occidentale.
Ciò in quanto il diritto è storia e la storia è comparazione.
Un approccio esclusivamente economico attento alla “crescita” sembra tendere all’applicazione di soluzioni universali, valide in tutti i tempi e in ogni luogo; tuttavia sul piano ad esempio dei diritti, questa impostazione si appoggia a costruzioni giusnaturalistiche che appaiono oggi irrimediabilmente superate e in quanto tali, non più riproponibili.
Un equivoco di tale genere sembra essere alla base di soluzioni apparentemente ragionevoli quali “l’esportazione della democrazia” che però hanno creato, come noto, crisi di rigetto anche tragiche perché, in ultima analisi, si sono rivelate applicazioni di un processo in qualche modo imposto e violento.
Un’analisi non superficiale di questi studi, insomma, porta a constatare come laddove tali processi siano maturati per il susseguirsi di ragioni storiche, la crescita è scaturita quale logica conclusione; ma è legittimo dubitare che tale crescita possa essere indotta da stimoli puramente esogeni e, soprattutto, per così dire standardizzati, che non tengano conto cioè, ancora una volta, delle singole specificità storiche delle situazioni sulla cui base quelle realtà si sono modellate.
La linea tracciata, dunque, sembra essere sempre di più quella di un approccio multidisciplinare, omnicomprensivo, al cui vertice ultimo deve necessariamente porsi la politica quale scienza (o arte?) delle scelte e delle decisioni.