“Manteniamo un sistema di esportazione solido e completo per monitorare e garantire la conformità. Se abbiamo motivo di credere che ci siano potenziali problemi, agiamo prontamente per assicurarla, incluse indagini e comunicazioni proattive con le parti interessate, compreso il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, con cui continuiamo a collaborare”. Quanto dichiarato dalla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co., meglio conosciuta con l’acronimo Tsmc, è stato anche messo in pratica. Il colosso tecnologico di Taiwan, che provvede alla metà della produzione di semiconduttori globale, ha bloccato due spedizioni sospette verso due clienti sviluppatori di chip, in quanto il timore era che volessero aggirare le sanzioni statunitensi. L’ordine riguardava il know-how necessario per realizzare i microchip a 7 nanometri sviluppati da Tsmc, ma il problema stava nella quantità, troppo elevata per essere una qualunque.
Lo stop segue l’altro chiarimento che l’azienda di Taipei ha fatto recapitare a Washington la scorsa settimana, resosi necessario dopo che il dipartimento per il Commercio stava indagando sull’eventuale responsabilità di Tsmc in merito al sotterfugi sfruttato da Huawei per evitare i limiti imposti dagli americani. Come riportato dal Financial Times, un cliente aveva richiesto l’Ascend 910B, un semiconduttore pensato per l’addestramento di modelli linguistici di grandi dimensioni, molto simile a quello utilizzato dall’azienda leader delle telecomunicazioni cinesi in risposta all’A100 di Nvidia. Alcuni di questi sono stati ritrovati nei dispositivi Huawei, che si è giustificato affermando che fanno parte delle sue scorte.
Il sospetto dunque era che Tsmc violasse le regole degli Stati Uniti, che proibiscono di fornire chip alla Cina per evitare che li utilizzi per i suoi fini poco chiari, anche se ha prodotto l’Ascendent 910B prima dell’introduzione delle sanzioni, dopodiché avrebbe rescisso i contatti con il colosso cinese.
Da tutta questa vicenda Tsmc dovrebbe uscirne pulita, o almeno così affermano con sicurezza i suoi funzionari – d’altronde vorrebbe dire che un’azienda di Taiwan corre in soccorso di una cinese, il che risulterebbe quantomeno anomalo e in controcorrente – ma il punto dell’intera storia è un altro: a quanto pare, Pechino è in grado di superare gli ostacoli messi da Washington.
C’era stata una certa sorpresa quando Huawei lo scorso anno aveva svelato il suo smartphone di punta, il Mate 60 Pro, realizzato proprio grazie ai chip a 7 nanometri. Si trattava della dimostrazione pratica del fatto che la Cina era in grado di fare da sé, senza aiuti esterni, sebbene rimanga indietro rispetto alla grande rivale situata sull’altra sponda del Pacifico.
Il rapporto tra Huawei e Tsmc è precedente alla guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina, ma si è sviluppato anche durante questa crisi ancora in corso. Nel 2019, ricorda l’esperto Alessandro Aresu in un lungo thread su X sulla questione, tra i maggiori clienti di Tsmc dopo Apple figurava proprio Huawei. Le pressioni di Washington hanno portato allo sdoppiamento, mai realmente avvenuto in quanto l’azienda cinese ha utilizzato terze parti per continuare a comprare tecnologia taiwanese. Non erano per forza aziende straniere, ma anche connazionali come la Xiamen Sophgo Technologies collegata indirettamente a Huawei. Nel frattempo Pechino ha accelerato la sua produzione affidandosi alla sua Smic – Semiconductor Manufacturing International Corporation.
C’è dunque da porre l’accento sui controlli blandi che vengono effettuati per assicurarsi che i diktat di Washington vengano rispettati. Ma sorge anche un altro aspetto, tutt’altro che secondario, che spiega molto del nostro tempo. Qualora venisse scoperto che Tsmc ha in qualche modo contribuito a rifornire Huawei con i suoi chip, gli Stati Uniti possono alzare la voce fino a un certo punto visto il dominio di cui gode l’azienda di Taipei e da cui dipende anche una superpotenza tecnologica come gli Usa. Una strigliata, al massimo, è più che sufficiente.