Xi potrebbe essere già il sicuro sconfitto di Usa2024, perché né Harris né Trump allenteranno la presa sulla Cina. Ma i loro approcci diversi potrebbero andare a complicare il reticolo di relazioni, alleanze e partnership americane nell’Indo-Pacifico
L’Indo-Pacific Command racconta le manovre aeree con cui caccia sudcoreani e giapponesi hanno scortato un un B-1 Lancer durante un volo di esercitazioni sui cieli della regione, domenica 3 novembre. “Questo esercizio continua una forte cooperazione trilaterale, consentendo una risposta immediata alle sfide della sicurezza regionale”, dice il Pentagono. E in effetti, vedere le tre forze unite non è una banalità, perché fino alla riunione dello scorso anno, ad agosto, in cui furono siglati i cosiddetti “Camp David Principles” gli equilibri tra i due principali alleati asiatici statunitensi erano segnati da diatribe storiche. L’incontro di Camp David con i leader di Tokyo e Seul è stato il principale successo della presidenza di Joe Biden per quel che concerne il dossier dell’Indo-Pacifico, anche perché ha aperto a quell’implementazione delle relazioni non solo trilaterali a cui accenna il comando militare raccontando la recente esercitazione, e a varie evoluzioni nei rapporti con i due alleati, marcando un nuovo equilibrio regionale — tutt’altro che apprezzato a Pechino, dove si definisce l’intesa una “mini-Nato” asiatica che serve da “ipocrita pantomima anti-Cina”.
Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti di domani si preannunciano come un momento decisivo per il futuro della politica estera americana su diversi dossier, e dopo Medio Oriente e Africa non si poteva non analizzare ciò che riguarda la relazione con la Cina e il ruolo americano nell’Indo-Pacifico. Mentre Donald Trump e Kamala Harris si contendono la Casa Bianca con visioni politiche e stili di leadership contrastanti, da riscontrare soprattutto nei toni del discorso pubblico (comunque pensato per accaparrarsi consensi nel tessuto polarizzato degli elettori), la strategia di contenimento verso Pechino sembra destinata a mantenere una certa continuità. E sarà questo il marker costante della strategia americana globale, con l’Indo-Pacifico che si confermerà fronte di primo livello in quel tentativo di contenimento. Si dice tentativo perché ci sono vari indicatori che dimostrano come la Cina potrebbe essere incontenibile, per esempio se si analizzano le evoluzioni delle capacità navali (militari, civili, ibride) o le evoluzioni spaziali, per non parlare dell’enorme pervasività ormai raggiunta dalle attività di spionaggio.
Per tali ragioni, consapevoli delle qualità e quantità ormai percepite a Washington, dal punto di vista cinese, le politiche di una nuova amministrazione Trump o di un’amministrazione Harris saranno strategicamente coerenti col clima di confronto generale. Né l’uno né l’altro molleranno la presa totale sulla Cina. Tuttavia, il modo in cui ciascuno dei due candidati intende gestire le relazioni con gli alleati asiatici suggerisce un approccio molto diverso e potenzialmente decisivo per l’equilibrio della regione. Ed è questa l’elemento di attenzione su cui Pechino pone l’accento. L’America non può contrastare la Cina da sola, a maggior ragione una Cina che si fa capofila (per forza, economica, militare e narrativa) del gruppo “CRINK” — quello composto con gli Stati paria Russia, Cina e Corea del Nord (pur non senza difficoltà di marcare distanze e differenze).
Un contenimento bipartisan della Cina
La competizione strategica tra Stati Uniti e Cina è destinata dunque a intensificarsi, indipendentemente da chi assumerà la presidenza a gennaio 2025. La modernizzazione militare della Cina, i progressi nel rafforzamento del suo ecosistema di innovazione e la crescente influenza nei Paesi in via di sviluppo — che spesso criticano l’ordine internazionale attuale da quel “Global South” che soffre l’essere considerato tale da un Nord occidentalista — pongono sfide totali per il prossimo presidente americano. Secondo Kevin Rudd, ex primo ministro australiano e attuale ambasciatore a Washington, la visione del leader cinese Xi Jinping è riassunta nel motto “l’ascesa dell’Est e il declino dell’Ovest”. Ed è tutto qui. Con “China Watcher” di Politico, Rudd nota che queste non sono semplici frasi propagandistiche, ma esprimono l’analisi cinese secondo cui la storia starebbe ora volgendo in modo decisivo a favore della Cina. E la narrazione ruota attorno a questo, incontrando successo tra gli scontenti del mondo.
Eppure, il rallentamento economico della Cina suggerisce che il percorso di Pechino potrebbe non essere così scorrevole. Le difficoltà di crescita e le tensioni con le democrazie industriali avanzate limitano la sua capacità di dominare l’Asia, per non parlare del raggiungimento di una preminenza globale. È qui che trova spinta la strategia americana, con Harris e Trump che dovranno trovarsi a bilanciare necessità e dati di fatto: perché comunque la Cina è il primo concorrente americano in un secolo a superare il 60% del PIL degli Stati Uniti. Dotata di una forza industriale e tecnologica molto maggiore rispetto all’ex Unione Sovietica, la Cina è profondamente integrata nell’economia globale — compresa quella statunitense — e non può essere semplicemente ignorata o isolata come ai tempi della Guerra Fredda.
Trump ha promesso un approccio ancora più aggressivo: una tariffa del 60% su tutti i beni cinesi, nonostante gli avvertimenti che ciò potrebbe danneggiare gravemente l’economia globale. Per il repubblicano è questo il modo di affrontare Xi Jinping, cosa che per lui Harris non è in grado di fare. “Qualcuno riesce a immaginarsela, e vogliamo essere politicamente corretti e tutto il resto, ma voglio dire qualcuno riesce a immaginarsela mentre ha a che fare con il presidente cinese Xi”, ha detto durante un comizio a Harrisburg, nella contesissima Pennsylvania, sostenendo le scarse capacità di leadership della vicepresidente — l’affermazione era di agosto, poi a ottobre i toni sono cambiati e il polcor dimenticato, tanto che Trump dice apertamente che Xi la tratterebbe “like a baby”.
Nel gestire il dossier Cina, Harris proseguirebbe con ogni probabilità la linea di Biden, puntando su una maggiore competitività americana nei settori dell’high-tech e della green economy, con una tacita ma ferma attenzione alla difesa di Taiwan, e con la strutturazione ulteriore delle alleanze e partnership regionali. Harris potrebbe cercare di rassicurare Pechino sul fatto che l’America non sta spingendo per la guerra e non sta lavorando per evitare lo sviluppo cinese. Il pericolo qui è nella visione del mondo muscolare che Xi ha ormai sviluppato (tra hybris e paranoia), perché tale linea — per quanto severa in alcuni sviluppo come quelli commerciali — potrebbe essere presa come un indebolimento della determinazione americana. Tuttavia, il background di Harris in California e la sua conoscenza della comunità asiatico-americana le danno una certa comprensione della complessità della relazione Cina-USA. “Harris è cresciuta in California e la Cina è il più grande partner commerciale della California”, dice Wang Huiyao, fondatore del Center for China & Globalization
Differenze chiave negli approcci agli alleati dell’Indo-Pacifico
La vera differenza tra Trump e Harris emerge però nelle relazioni con gli alleati asiatici. L’approccio “America First” di Trump si è già rivelato controverso in passato, con tensioni nei rapporti economici e di sicurezza con Giappone e Corea del Sud. In un saggio su Foreign Affairs, i politologi Wang Jisi, Hu Ran, and Zhao Jianwei della Peking University sostengono che Trump potrebbe “essere meno capace di mobilitare alleati e partner contro la Cina e cercare un’intesa separata con la Russia”, storico partner strategico di Pechino. Questa linea rischia di compromettere le relazioni americane con Europa e Asia, con l’ex presidente pronto a fare significative concessioni pur di riequilibrare il rapporto economici con la Cina. “Xi Jinping non odia gli Stati Uniti, ma ama la Cina […] Devi capire, questo è un uomo che è al top della sua carriera […] e io ho una grande amicizia con lui. Ma è all for China. Non gli importa niente del nostro Paese”, diceva lo scorso anno alla Fox il repubblicano, esaltando le sue capacità nella “art of the deal”.
Trump descrive una sorta di “Make China Great Again” su cui rivede un elemento di fondo comune con la sua narrazione: Xi come lui cerca armonia e pace, ma non teme di mostrare i muscoli se serve. Al contrario, Harris probabilmente manterrebbe un approccio multilaterale e centrato sul “latticework approach”, come viene definito il reticolato di alleanze e partnership americane nell’Indo-Pacifico. Proseguendo nella cooperazione con i partner asiatici attraverso “mini-laterali” e strutture collaborative. Kyung-wha Kang, presidentessa dell’Asia Society, osserva che “con Harris, una rete più strutturata di alleati potrebbe fungere da equilibrio contro l’ascesa della Cina, mentre con Trump gli alleati potrebbero coalizzarsi per affrontare le preoccupazioni sull’affidabilità e attenzione americana a lungo termine”. Non è chiaro infatti come reagiranno gli alleati preoccupati in Europa e Asia alla nuova presidenza soprattutto sul macro-tema “pace”, ragionano Matthew Kroening ed Emmas Ashford su Foreign Policy.
Divergenze interne sull’approccio alla Cina
Nonostante l’accordo di fondo sulla necessità di competere con Pechino, le divisioni tattiche negli Stati Uniti non mancano. Anche negli Stati Uniti si discute spesso di politica estera con le lenti delle questioni domestiche, perché come ricorda a VoA Liu Yawei, direttore del China Program al Carter Center, “gli elettori americani sono più preoccupati per le questioni interne. I sondaggi mostrano che la cosiddetta minaccia della Cina si colloca dietro l’economia, l’immigrazione, l’aborto, il clima, la democrazia e altre questioni”. In generale, e al di là di una sensazione diffusa, in un recente sondaggio di YouGov, solo una minoranza di elettori ha elencato la politica estera degli Stati Uniti come una delle prime tre questioni sulla corsa presidenziale. Ma il sondaggio ha sorprendentemente rilevato che i sostenitori di Trump si preoccupano un po’ di più della politica estera rispetto ai sostenitori di Harris.
Tuttavia, alcuni ex consiglieri di Trump, come Matt Pottinger, criticano la “soft deténté” di Biden e propongono una “ideological confrontation” con il regime cinese, incoraggiando a seguire le lezioni della Guerra Fredda per contenere una Cina autoritaria e aggressiva e dunque aumentando il coinvolgimento nel confronto della popolazione e delle quotidianità. Rush Doshi, ex consigliere di Biden, avverte però che è imprudente sottovalutare pa reazione Pechino: la Cina possiede una forza industriale e tecnologica molto più solida rispetto all’ex Unione Sovietica e una maggiore integrazione nell’economia globale, dice. Il confronto di vedute tra Pottinger e Doshi è parte di un lavoro fatto da Foreign Affairs. Conclusione ridotta all’osso: come giustificare con le collettività Usa scelte dure, da confronto ideologico appunto, come un potenziale ban di TikTok o di Temu e Shein? Il Pew Research, per esempio, dice che il sostegno al divieto di TikTok negli Stati Uniti continua a diminuire e metà degli adulti dubita che ciò accadrà, consapevole che intaccare così pesantemente gli stili di vita non può essere possibile per un presidente statunitense, sebbene il social network sia sotto accusa anche per le “scioccanti” capacità di spionaggio e disinformazione.
Cosa aspettarsi e cosa osservare
La visione di Trump — Maga tramite America First — potrebbe portare a scelte politiche transazionali, sacrificando alleati asiatici “costosi” per ottenere un accordo vantaggioso con Pechino sul riequilibrio innanzitutto della bilancia commerciale e poi di alcune questioni globali comuni. Tuttavia, questo approccio rischia di minare la coesione tra i partner americani, lasciando aperte questioni cruciali sull’affidabilità e la continuità degli impegni statunitensi nella regione. Harris potrebbe avere una linea più continuativa, indirizzata comunque verso la protezione dell’interesse nazionale ma con toni più ricercati, mantenendo una collaborazione con gli alleati e i partner per costruire un sistema articolato e per certi versi condividere la strategia con loro, rendendoli parti di una nuova interdipendenza che a lungo andare isoli la Cina e ne complichi l’ascesa. Il rischio è che Xi aumenti a sua volta la cooperazione con i CRINK, o veda vulnerabilità nell’approccio americano.
Con ogni probabilità dunque le elezioni USA 2024 non produrranno a un cambiamento radicale nell’atteggiamento americano verso Pechino, che resterà attento e severo, ma potrebbero più che altro influenzare la gestione degli equilibri regionali nell’Indo-Pacifico. Il prossimo presidente avrà il compito di fronteggiare la Cina, ma anche di mantenere una linea chiara e affidabile per garantire stabilità a lungo termine in una regione che resta cruciale per gli equilibri geopolitici mondiali. In definitiva, Xi potrebbe essere già il sicuro sconfitto di Usa2024. Vincerà l’Indo-Pacifico?