Trump o Harris, New Delhi cercherà di collaborare strettamente con qualunque candidato arrivi alla Casa Bianca. E adatterà il proprio approccio in base al risultato di Usa2024, non solo verso la nuova amministrazione ma anche nella triangolazione della sua proiezione strategica
Con vaste sezioni dell’ecosistema degli sviluppatori tecnologici del mondo che hanno sede in India o origine nel Subcontinente indiano, uno sforzo concertato tra governo e partner internazionali sta spingendo le aziende indiane a costruire prodotti fondamentali. La strategia “Make in India” di Narendra Modi incontra i desiderata del de-risking dalla Cina di Stati Uniti, Unione europea, Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Fattore moltiplicativo del peso internazionale indiano. L’India per esempio partecipa alla maggior parte delle discussioni su una politica globale in materia di AI, ricorda un recente approfondimento di Mint: “Il vertice della Global Partnership on AI (GPAI), che ha seguito la presidenza indiana del G20 e ha preceduto la Dichiarazione di Bletchley di quest’anno, ne è un buon esempio”. Con circa 13,2 milioni di sviluppatori, l’India è al secondo posto al mondo dopo gli Stati Uniti. Le imprese globali, quindi, vogliono attingere all’India per co-creare proprietà intellettuali nel settore tecnologico.
Anche per questo, buona parte dell’attenzione degli Stati Uniti sul piano internazionale riguarda proprio l’India. Dall’iCET all’Indo-Pacifico, New Delhi è centrale nella campagna totale con cui gli Stati Uniti stanno conducendo lo scontro tra modelli, quello che vede le Democrazie contro quel sistema alternativo autoritario; tema che avvolge completamente i global affairs. Non è un caso per esempio se escono sempre più valutazioni sull’importanza per Washington di creare una strategia per l’Oceano Indiano, che è fondamentale per l’economia globale e gli interessi degli Stati Uniti: non trascurarlo significa dare priorità e attenzione all’India e dunque stringere ulteriormente le relazioni con New Delhi, come spiega Nilanthi Samaranayake per lo U.S. Institute for Peace.
Parte della politica estera della futura presidenza statunitense si snoderà anche attorno queste relazioni. A maggior ragione se si considerano le dinamiche di apparente distensione in corso tra India e Cina. E si scrive “apparente” perché è vero che come dice il ministro degli Esteri indiano, S. Jaishankar la recente intesa al tesissimo confine è positiva — “apre la possibilità che possano essere fatti altri passi”, ha dichiarato — ma come spiegava Vas Shenoy (ICC), è una decisione tattica che non nasconde distanze e criticità. È anche pensando a questo “tactical thaw” che va analizzata l’India per l’amministrazione statunitense che uscirà da Usa2024, con la consapevolezza che il ruolo strategico resterà, New Delhi si adatterà al nuovo inquilino della Casa Bianca: e sia esso Donald Trump o Kamala Harris, dovrà anche il nuovo presidente adattarsi al trend delle relazioni con New Delhi, perché “are here to stay”.
Washington-New Delhi sopra ai presidenti
La storia delle relazioni tra Stati Uniti e India dimostra infatti che il legame tra le due nazioni è ormai una costante della politica estera americana, indipendentemente da chi occupi la Casa Bianca. Dai tempi di Bill Clinton, passando per George W. Bush, Barack Obama, lo stesso Donald Trump e fino a Joe Biden, ogni amministrazione ha apportato un contributo significativo a questo partenariato strategico.
Condoleezza Rice, ex segretaria di Stato bushiana, ha recentemente sottolineato che chiunque vinca le elezioni comprenderà che questo è “il rapporto più importante”, perché le relazioni non sono semplicemente bipartisan, ma “enduring”. Tuttavia, la figura che siederà nello Studio Ovale nel 2025 potrà influenzare il contesto e il tono delle politiche verso l’India, come evidenzia Foreign Policy, richiedendo a New Delhi un certo grado di duttilità strategica.
Partnership consolidata, divergenze controllate
Nel corso degli ultimi vent’anni, i rapporti Usa-India sono cresciuti significativamente, partendo dalla firma di importanti intese come quella sul nucleare civile e l’iniziativa iCET già accennata, e consolidandosi in ambiti strategici, economici e di difesa. È per questo che gli Stati Uniti hanno progressivamente riconosciuto l’India come partner naturale e contrappeso alla Cina, oltre che come attore chiave nella stabilità regionale nel cruciale Indo-Pacifico. Questi sviluppi hanno segnato una continuità strategica che va oltre le differenze di parte, rendendo il rapporto Usa-India uno dei più resilienti e meno influenzabili dai cambiamenti politici interni americani.
Gli Stati Uniti e l’India stanno attualmente lavorando su diversi nuovi accordi, molti dei quali già annunciati, che spaziano dal settore della difesa e sicurezza alla cooperazione nella regione indo-pacifica. Tra questi vi sono l’istituzione di un dialogo sull’Oceano Indiano (conferma di quella accennata necessità strategica crescente sulla regione), il Security of Supply Arrangement, un’intesa per l’assegnazione di ufficiali di collegamento, l’acquisizione pianificata di 31 droni MQ-9B da parte dell’India e le negoziazioni per la co-produzione di motori per caccia e altri equipaggiamenti militari, oltre a consultazioni per un accordo reciproco sugli approvvigionamenti della difesa.
Nonostante la convergenza strategica che ha favorito questa cooperazione, permangono comunque divergenze come marcatori controllati del rapporto Usa-India. Washington guarda con preoccupazione alla partnership di New Delhi con Mosca, in particolare dopo l’invasione dell’Ucraina. D’altro canto, l’India osserva attentamente i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. Nella regione sudest-asiatica, l’India ha riconosciuto l’utilità della cooperazione con gli Stati Uniti e altri partner affini, ad esempio nello Sri Lanka, pur con limiti derivanti da differenze su altri dossier, come il Bangladesh. A livello globale, l’aspirazione dell’India a rappresentare la “voce del Sud Globale” può risultare utile agli Stati Uniti come alternativa alla Cina, ma può anche generare attriti se assume toni utilitaristici anti-occidentali (spesso necessari quando si dialoga con quella parte di mondo).
Divergenze persistono anche sul piano economico, come le barriere commerciali e l’incertezza dell’ambiente imprenditoriale indiano. E ci sono stati momenti di tensione su questioni interne: da una parte, osservatori statunitensi hanno espresso preoccupazione per lo stato della democrazia in India, ultimamente legate anche alla visione politica identitaria di parte del Partito Democratico che sostiene l’amministrazione Biden (e la continuità con Harris), mentre New Delhi ha richiesto il rispetto della propria sovranità (linea più affine alla visione trumpiana). Una questione più delicata è sorta l’anno scorso, con accuse statunitensi di coinvolgimento di un funzionario indiano in un complotto per omicidio su suolo americano e una linea pro-canadese di Washington in una vicenda simile (ma dagli effetti molto più gravi). L’India ha manifestato irritazione pubblicamente per l’appoggio di alcuni membri della diaspora a movimenti separatisti.
L’influenza crescente della diaspora indiana e il suo impatto sui rapporti USA-India
Con circa 5,2 milioni di indiani-americani negli Stati Uniti, di cui circa 2,6 milioni sono elettori eleggibili, la comunità indiana rappresenta un blocco sempre più significativo nell’elettorato statunitense. Tradizionalmente vicina al Partito Democratico, recenti sondaggi mostrano una flessione in questo allineamento: solo il 47% di loro si identifica ora come democratico, in calo rispetto al 56% nel 2020. Questa diminuzione evidenzia una crescente insoddisfazione, soprattutto tra i giovani e gli uomini della comunità, e un interesse più marcato verso candidati repubblicani come Donald Trump.
Questa tendenza si riflette anche nelle preferenze per Kamala Harris, la cui candidatura inizialmente ha suscitato entusiasmo per le sue origini indiane, ma il cui sostegno tra gli indiani-americani è sceso al 61%, con un leggero divario di genere: il 67% delle donne indiane intende votare per Harris, mentre solo il 53% degli uomini è dello stesso avviso. Al contrario, il sostegno per Trump è salito al 31%: attraenti sono le politiche economiche favorevoli alle imprese e le retoriche populiste che risuonano particolarmente tra i giovani uomini.
La comunità indiana-americana, nonostante sia relativamente piccola in termini demografici, ha un’influenza che va oltre il numero dei votanti, estendendosi anche a livello culturale e manageriale. Leader di alto profilo di origine indiana, come i CEO di Google o Microsoft per fare due super esempi, portano la presenza indiana nelle stanze del più elevato potere aziendale statunitense, contribuendo a rafforzare il ruolo di ponte tra i due Paesi. Le percezioni e le preferenze di questa collettività, quindi, influenzano non solo la politica americana, ma anche il modo in cui l’India percepisce gli Stati Uniti.
Le differenze tra un’amministrazione Harris e un’amministrazione Trump
Anche se è certo che gli Stati Uniti continueranno a vedere nell’India un partner fondamentale, l’approccio di Harris e quello di Trump differirebbero comunque in modo significativo. Un’amministrazione Harris sarebbe probabilmente in continuità con le politiche di Biden, mantenendo un impegno verso la rivalità strategica con la Cina e un rafforzamento delle alleanze regionali, come il Quad, e la partnership. Tuttavia, la priorità verso i temi democratici e i diritti umani potrebbe riemergere, creando sfide complesse per New Delhi, soprattutto in aree dove India e Stati Uniti non condividono del tutto la stessa lettura del presente.
D’altra parte, una presidenza Trump potrebbe portare un elemento di imprevedibilità. La tendenza di Trump a considerare i rapporti in termini transazionali potrebbe tradursi in un approccio meno strutturato e più volatile. Nonostante una potenziale continuità nella competizione con la Cina, ci si potrebbe aspettare un minore impegno su temi come la difesa dei diritti umani in India, probabilmente apprezzata nel quadro della non-interferenza, e una maggiore attenzione verso interessi economici diretti, come il reshoring (con l’India che però preferirebbe un friendshoring con gli Usa). Trump potrebbe puntare su accordi bilaterali che riflettono le sue priorità economiche, il che potrebbe avere implicazioni per l’India nel contesto delle catene di approvvigionamento e della tecnologia.
Un adattamento necessario, ma con continuità strategica
New Delhi è certamente interessata all’approccio bilaterale che il futuro presidente degli Stati Uniti adotterà verso l’India, così come alla sostenibilità delle coalizioni minilaterali, specialmente il Quad. Tuttavia, data la persistenza della competizione strategica con la Cina, l’India presterà attenzione anche alla politica della nuova amministrazione americana verso Pechino, auspicando che mantenga una linea competitiva.
Se Kamala Harris dovesse vincere, l’India si interrogherà su quanto il suo mandato offrirà continuità rispetto all’amministrazione Biden, in termini di priorità e personale. New Delhi osserverà in particolare come una sua presidenza considererà l’Indo-Pacifico, l’approccio alla Cina, la volontà di approfondire la cooperazione nei settori della sicurezza, dell’economia e della tecnologia, e l’enfasi sui valori democratici, inclusi eventuali riferimenti alle dinamiche interne indiane.
In caso di una nuova amministrazione Trump, New Delhi spera che ritorni la competitività aggressiva mostrata verso la Cina nel primo mandato e l’attenzione verso l’Indo-Pacifico. Tuttavia, c’è preoccupazione per l’imprevedibilità di Trump e per un approccio più pragmatico, soprattutto riguardo alla possibilità di forme di intesa con Xi Jinping e il suo impegno verso alleati e partner regionali.
“Alla fine, tuttavia, l’importanza della relazione con gli Stati Uniti per New Delhi significa che cercherà di collaborare strettamente con qualunque candidato arrivi alla Casa Bianca. E adatterà il proprio approccio in base al risultato delle elezioni, non solo verso la nuova amministrazione, ma potenzialmente anche nei confronti di altre potenze maggiori e intermedie”, ha scritto Tanvi Madan della Brookings Institution.