Londra non intende rivedere al ribasso gli investimenti per la Difesa e punta invece al 2,5% del Pil in spese militari. In questa prospettiva, l’allocazione efficiente delle risorse sarà cruciale per rilanciare il ruolo del Regno Unito nella Nato e nel dialogo con gli Usa. Però, perché ciò sia possibile, sarà necessario accelerare sull’innovazione per sostenere una Royal navy sempre più affaticata dal peso degli anni e dall’obsolescenza dei sistemi
Il Regno Unito, nonostante gli annunci che parlano di una spending review imminente, intende aumentare le spese per la Difesa. Dopo un primo momento di riflessione, l’esecutivo laburista guidato da Keir Starmer ha confermato che i tagli non riguarderanno le spese militari e che anzi Londra punta a raggiungere il 2,5% del Pil in spese per la Difesa, in linea col precedente governo conservatore e corrispondente a ulteriori 22,5 miliardi di sterline. Tale decisione è dettata dalle rinnovate esigenze di sicurezza nazionale legate agli scenari internazionali di crisi e, come sostiene Downing Street, dalla crescente minaccia di attori come Russia, Cina, Iran e Corea del nord. Dunque, la Strategic defence review (Sdr) che interesserà le Forze armate britanniche non andrà a tagliare fondi, ma ad allocarne altri e a rivedere gli investimenti attualmente in corso.
Secondo Roly Walker, capo di Stato maggiore dell’Esercito britannico, il British army raddoppierà la sua letalità entro il 2027 e la triplicherà entro il 2030 grazie all’implementazione di tecnologie avanzate e sistemi unmanned tra i propri ranghi. Una simile impostazione dovrebbe tenere i costi relativamente stabili e sopperire alle crescenti difficoltà di arruolamento. Stando inoltre allo studio “The Strategic Defence Review, Britain and sea power”, pubblicato dal Council on Geostrategy (think tank di base a Londra) in vista della Strategic review, il Regno Unito dovrà inoltre puntare a rivestire un ruolo di primo piano nell’Alleanza Atlantica come attore navale di rilievo.
Un approccio Nato-first
In una congiuntura internazionale che vede il Regno Unito ancora alle prese con le conseguenze della Brexit e timoroso circa il futuro della special relationship con gli Stati Uniti dopo l’elezione di Donald Trump e il fallimento della Global Britain di Boris Johnson, Londra punta a diventare il “leading European Ally” all’interno della Nato. In questa ottica, il contributo alla sicurezza collettiva transatlantica dovrebbe costituire la piattaforma tramite la quale preservare il ruolo di potenza del Regno Unito sullo scacchiere internazionale. Va detto che, alla luce della rinnovata rivalità strategica tra Nato e Russia, le isole britanniche rappresentano effettivamente uno dei più importanti capisaldi atlantici contro le flotte russe del Baltico e del Nord. Non bisogna inoltre dimenticare che l’arsenale nucleare britannico (incentrato sui sottomarini di classe Vanguard) costituisce una parte fondamentale del dispositivo di deterrenza strategica della Nato. Puntare su questa area di interesse (oltre a quella dell’Indo-Pacifico) può permettere a Londra di esercitare un peso maggiore sulle decisioni in seno al Consiglio Nord Atlantico e di tutelare i propri interessi commerciali.
La Royal navy torna al centro
Londra conosce bene l’importanza del mare e di una Marina militare capacitiva per un Paese insulare che vede il 95% del suo commercio passare dagli scali portuali. Sono questi i presupposti sui quali l’Inghilterra ha costruito il più grande impero coloniale della storia e su cui intende puntare per preservare un ruolo di primo piano nell’epoca del post-Rule Britannia. Come emerge dal documento del Council on Geostrategy, la spesa per la Difesa dovrebbe privilegiare la Marina, dati i già ingenti investimenti sulle componenti terrestri di Francia, Germania e Polonia. Tuttavia, la Royal navy affronta ormai da tempo diverse problematiche che rischiano di far venire meno i suoi presupposti di potenza marittima, dalle criticità delle due portaerei classe Queen Elizabeth (che più di una volta, a causa di difetti tecnici, sono dovute rientrare preventivamente in porto) al calo dei reclutamenti e al rapido invecchiamento dei sistemi. L’accelerazione tecnologica, e la conseguente evoluzione delle minacce, stanno infatti pregiudicando l’efficienza delle navi militari più datate e il ritmo a cui procede l’innovazione rende sempre meno possibile pensare che una nave possa superare i quarant’anni di vita operativa. Di conseguenza, le Marine militari devono aggiornarsi più in fretta e rivedere le loro priorità, anche per tenere conto dei tempi imposti dalla cantieristica.
Secondo l’ammiraglio Sir Ben Key, primo lord dell’Ammiragliato e capo di Stato maggiore della Marina britannica, si rende necessario poter implementare nuove capacità “molto più rapidamente di quanto ci mettiamo a costruire un vascello”. Per fare questo, è necessario che i sistemi siano progettati, come possibile, indipendentemente dalle piattaforme su cui verranno equipaggiati per “staccare la capacità operativa dalla piattaforma che la porterà a destinazione”. La sfida non è impossibile, espedienti come l’ingegneria modulare permettono di lavorare in questo modo, ma quello che conta in questo caso è l’approccio alla base. Come afferma lo stesso Key: “È un cambiamento di mentalità non indifferente per noi”. Anche sul piano quantitativo, l’impiego di droni navali, sia di piccola sia di media e grossa stazza, costituirà una parte considerevole dello sforzo di aggiornamento della Royal navy. La futura rilevanza strategica, e quindi politica, del Regno Unito dipenderà dall’effettiva capacità di Londra di realizzare questi disegni e di porsi ancora una volta come un alleato chiave sui mari.