Il Movimento 5 Stelle è a forte rischio di un’agonia politica. Per il campo largo non si può pensare che questa fantomatica coalizione si crei da sé o venga imposta dall’alto, con 3 o 4 leader seduti a tavolino. Serve qualcuno che ribalti quel tavolo: soltanto iniziando dal basso, dai territori, si possono aggregare tutte le forze. Normalizzare i rapporti tra Meloni e Schlein? Frutto di un’ingenua visione politica. Conversazione con Marco Valbruzzi, docente di Scienza politica all’Università Federico II
Tempi duri per il campo largo. A maggior ragione in questo frangente in cui il Movimento 5 Stelle si trova nel pieno di una fase iper problematica con una conflittualità sempre più esacerbata tra il leader Giuseppe Conte e il garante-fondatore, Beppe Grillo. Nell’imminenza dell’appuntamento per le regionali in Umbria e in Emilia-Romagna questo scenario non è propriamente ben augurante. Ed è per questo che per tentare – sui territori, ma soprattutto a livello nazionale – di dare al campo largo una prospettiva credibile di alternativa al governo di centrodestra, occorre che qualcuno “ribalti il tavolo”. È il punto focale su cui basa la sua analisi Marco Valbruzzi, docente di scienza politica all’università Federico II di Napoli e in procinto di uscire con Sistemi democratici comparati (il Mulino).
Professor Valbruzzi, a brevissimo si entrerà nel vivo della fase costituente del Movimento 5 Stelle. Cosa si aspetta?
Per dirla in modo un po’ retrò, che magari non piacerà ai dirigenti e agli iscritti del M5S, ci troviamo di fronte a un congresso di partito, sebbene svolto con modalità peculiari. E si tratta, se Conte vorrà o saprà essere cinico fino in fondo, di un processo di “sostituzione dei fini”: il M5S tenta di accantonare la tecno-utopia delle origini per dar vita a un’organizzazione politica vera, con un embrione di struttura interna e di classe dirigente. Il successo di questa operazione è tutto nelle mani di Conte: se riuscirà a silenziare definitivamente la figura del Garante (e cioè del fondatore, Beppe Grillo) assisteremo alla nascita di un nuovo partito. In caso contrario, assisteremo alla più o meno lenta agonia del fu M5S.
È immaginabile un’inversione di tendenza per i pentastellati dopo i flop registrati alle urne, con il nuovo corso affidato a Conte, oppure è una parabola inesorabile?
Per i pentastellati non è appropriata l’immagine della parabola. Meglio usare l’immagine dell’otto volante, con rapide ascese e repentine (ma prevedibili) discese. Per un brand nazionale e “digitale”, quindi naturalmente effimero, come quello del M5S, le uniche elezioni in cui risulta competitivo sono quelle nazionali. L’obiettivo di Conte è costruire un partito che possa competere seriamente anche nelle elezioni locali, ma per farlo serve tempo, coerenza e costanza.
E ritiene che Conte abbia queste risorse a disposizione?
Non lo so, ma è l’unico in quel che resta del M5S che può tentare l’impresa. Visto il consenso di cui ancora gode nel Meridione, potrebbe iniziare costruendo una sorta di movimento o “Lega Sud” sfruttando ancora la presa sociale e comunicativa del reddito di cittadinanza. Poi, col tempo, potrà decidere come e quando allargarsi nelle altre Regioni.
Come immagina possa essere il futuro del campo largo alla luce di questi presupposti?
Lo immagino problematico, soprattutto finché non si troverà qualcuno in grado di “arare” questo campo, piantando semi oggi che possano dare i loro frutti fra qualche anno. Soprattutto, non si può pensare che questa fantomatica coalizione dal perimetro troppo variabile si crei da sé o venga imposta dall’alto, con 3 o 4 leader seduti a tavolino. Serve qualcuno che ribalti quel tavolo: soltanto iniziando dal basso, dai territori, si possono aggregare tutte le forze (anzi, le debolezze) del centrosinistra.
Ma che cosa intende concretamente per “ripartire dal basso”?
Faccio un esempio molto pratico: l’attuale legge elettorale prevede alla Camera dei deputati 147 collegi uninominali. Bene, i partiti del centrosinistra individuino in ogni collegio un referente della coalizione con il compito di costruire una rete locale di sostenitori, coinvolgendo associazioni, gruppi di cittadini, movimenti. Quella sarà la base per costruire poi un accordo nazionale su alcuni, pochi punti di un programma comune: salario minimo; sanità pubblica, istruzione statale, tutela o recupero del territorio. La questione della leadership nazionale verrà poi risolta direttamente dagli elettori al momento opportuno, quando ci saranno, non certo a breve, le prossime elezioni politiche.
Sui territori, il Pd ha costruito la propria forza elettorale, mentre i pentastellati sono sempre stati deboli. Emilia e Umbria, quali scenari prevede?
Nel centrosinistra, lo scenario sarà simile a quello osservato in Liguria poche settimane fa: un Pd elettoralmente forte accerchiato da alcuni cespugli di sinistra e di centro. Il punto è capire se ci sarà un pareggio (con l’Emilia-Romagna che resta al centrosinistra e l’Umbria al centrodestra) oppure una doppia vittoria del centrosinistra. A quel punto, pur con un magro risultato (3-4%), ne uscirebbe sollevato anche Conte, che potrebbe presentarsi alla resa dei conti della Costituente con qualche freccia in più al suo arco.
In linea di massima la proposta politica progressista anche a livello internazionale, fatica a fare breccia sull’elettorato. Come se lo spiega?
Me lo spiego abbastanza facilmente: non esiste nessuna politica, e neanche un’agenda, progressista per la politica internazionale. Tutti i partiti di centrosinistra si muovono in ordine sparso. Però, questo vale anche per il governo, con 3 posizioni diverse per i 3 principali partiti di centrodestra. Al centrosinistra, servirebbe trovare però un minimo comune denominatore sulla politica estera, che poi permetterebbe anche di far emergere le contraddizioni nella coalizione al governo. Meloni ha trovato quel denominatore comune nella coperta, oggi sempre più corta e sgualcita, dell’atlantismo. Il centrosinistra dovrebbe muoversi nell’orizzonte dell’europeismo: l’unico peraltro in grado di dare una qualche credibilità a chi oggi parla con troppa leggerezza di “pace” senza indicare né i modi né i mezzi.
Calenda ha lanciato l’idea di una normalizzazione del rapporto tra Elly Schlein e Giorgia Meloni. È realistico?
Spiace dirlo, ma ogni volta che ascolto o leggo dichiarazioni di Calenda mi torna in mente il titolo di quel capolavoro di Thomas Mann, “Considerazioni di un impolitico”. Calenda è esattamente questo: un politico impolitico, cioè un manager capitato per sbaglio in un’arena di cui non riesce a capire la logica di funzionamento. La stessa idea di una normalizzazione del rapporto tra Schlein e Meloni è frutto di questa ingenua visione impolitica. Politica è conflitto, anche aspro, meglio se ideale e non personale. L’importante è accordarsi e accettare le regole del gioco.
Quindi, secondo lei, non c’è nessuno spazio per la normalizzazione di questo conflitto…
Proprio no. Pensare che in una stagione politica caratterizzata, non solo in Italia, dalla polarizzazione sociale (e social) sia realistico parlare di “normalizzazione”, qualsiasi cosa voglia concretamene dire, fa parte di quella incapacità o ingenuità politica di cui dicevamo poco fa. Calenda lasci stare la pedagogia politica e inizi a fare politica, magari così ne trae beneficio anche il suo obiettivo di costruire un piccolo, ma non inutile, partito liberale. L’unico modo vero per “normalizzare” la politica italiana è contribuire a costruire un’alternativa credibile al governo Meloni. Tutto il resto, direbbe Amleto, dovrebbe essere silenzio.