Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca riaccende i dibattiti sulla pace in Ucraina, con focus sulla sua inclinazione a tagliare gli aiuti a Kyiv e a negoziare direttamente con Putin. Tuttavia, la reale efficacia di tale strategia dipenderà da fattori interni ed esterni alla politica Usa
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, nel mainstream si dà per imminente la fine del conflitto in Ucraina. Sembra l’esito inevitabile dell’intenzione del presidente eletto di dialogare direttamente con Vladimir Putin, e al contempo di tagliare gli aiuti al governo Ucraino per obbligarlo a negoziare.
Trump 1.0 vs 2.0
È ancora presto per dire se e fino a che punto questa strategia verrà messa in pratica.
Non sarebbe la prima volta che propositi di politica estera enunciati durante le super-competitive elezioni presidenziali americane restano lettera morta. Nonostante la solenne e ripetuta promessa di smantellare Guantanamo come primo atto della sua presidenza – la famigerata prigione è sopravvissuta ad entrambi i mandati di Barack Obama. Inoltre, per Trump l’incognita è se la seconda amministrazione da lui guidata dovrà affrontare gli stessi pesanti ostacoli incontrati dalla prima.
Come la forte resistenza a seguire le sue indicazioni in politica estera da parte del Dipartimento di Stato, dove è più radicato il Deep State dichiaratamente anti-trumpiano. Oppure il deteriorarsi dei rapporti con le punte di diamante del suo stesso team diplomatico, dalla clamorosa defezione di John Bolton all’allontanamento di Nikki Haley e Michael Pompeo, che Trump ha già detto di non volere nella nuova squadra.
Mosca non ha fretta. L’Ucraina non è l’Afghanistan
Tre anni di conflitto in Ucraina ci ricordano che, per quanto importante sia il ruolo degli Usa, ci sono altri attori chiave che determinano l’andamento della crisi. In primis, i due contendenti che si scontrano militarmente sul campo. A prescindere dalla efficacia finale della strategia trumpiana, non è affatto scontato che Mosca e Kyiv, come semplici comparse ne accettino automaticamente premesse e finalità.
Dopo avere preso tutti in contropiede dando inizio al conflitto, Mosca proverà a dettare anche i tempi per la pace, piuttosto che farseli imporre. Scegliendo il momento più favorevole, non prima di avere raggiunto i propri obiettivi minimi, negoziando eventualmente su quelli massimi.
Dichiarazioni di circostanza a parte, il Cremlino non sembra avere fretta di sedersi al tavolo negoziale.
D’altro canto, è un errore considerare l’Ucraina di Volodymyr Zelensky un soggetto totalmente eterodiretto da Washington, come lo era l’Afghanistan di Hamid Kharzai. L’aiuto interventista ha elevato Kyiv a partner Occidentale e ne ha rafforzato lo status internazionale. Perdere gli aiuti militari sarebbe di sicuro un colpo pesante. Ma è un azzardo pensare che questo sia sufficiente per fare accettare a Kyiv un negoziato simile ad una resa.
Guerra e stabilità politica
Da quando è diventato chiaro che la guerra non sarebbe stata il conflitto-lampo sperato dal Cremlino, la guerra si è istituzionalizzata come componente di stabilità per l’intero sistema politico russo (ben oltre la sola leadership di Putin). Oltre a subordinarli al raggiungimento di obiettivi militari\territoriali, la cautela russa verso i negoziati riflette due questioni politiche centrali. Entrambe sono alimentate da un sentimento di diffusa diffidenza nei confronti dell’Occidente, simmetrico e contrario a quello che l’Occidente nutre verso la Russia.
La prima questione è il timore che il negoziato altro non sia che un modo per fare prendere tempo a Kyiv in un momento del conflitto favorevole a Mosca. Per paradosso, in Ucraina oggi la Russia condivide la stessa paura dell’Occidente, a ruoli invertiti. Ovvero che la parte opposta utilizzi la pace come una tregua per riorganizzarsi in vista di una nuova, più potente campagna militare, solo rimandata nel tempo.
La seconda questione riguarda il timore che le narrative occidentali (in particolare quelle europee, di fatto accessibili all’opinione pubblica russa) creino il mito di un negoziato imposto alla Russia, simile ad una mezza sconfitta militare. Base di legittimità sistemica per gli anni a venire, per il Cremlino la percezione sul piano interno di una guerra vittoriosa sarà ancora più importante a conflitto concluso che durante il suo svolgimento.
Negoziatori vs Negoziati
Il problema è come evitare che simili questioni politiche covino sotto traccia e compromettano una pace che tutti considerino vera e durevole, non un semplice pallone calciato qualche metro più avanti. Comunque si proceda, la precondizione è di ricreare tra le parti negoziali quel clima di fiducia, oggi totalmente assente, che in passato ha permesso di superare altri momenti e transizioni critiche. Come a fine degli anni Ottanta, con gli accordi contro la proliferazione nucleare firmati da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, che segnarono una svolta nelle relazioni Usa-Urss e di fatto la fine della Guerra Fredda.
Oggi, questo richiede alcune azioni concrete, spesso trascurate ma meritevoli di maggiore attenzione. Anzitutto, è fondamentale rafforzare i rapporti diretti e i canali di comunicazione informale tra i membri delle delegazioni negoziali, a tutti i livelli e senza preclusioni (inclusi Cina e Unione Europea). In modo da creare un gruppo trasversale che, pur nella difesa ciascuno delle proprie posizioni, sia per forma mentis orientato alla mediazione costruttiva e di lungo periodo.
Dopo tutto, sarebbe il tentativo di sistematizzare ed estendere su larga scala il ricorso al contatto personale su cui fa affidamento Trump per comunicare con Putin. Per avere successo nei negoziati, conviene lavorare prima sui negoziatori.