Da qui le conseguenze. Negli stessi calcoli della Commissione, l’eurozona nel periodo 2024/2026 crescerà della metà rispetto a quanto si prevede per gli Usa. Se poi si considerano le previsioni del Fondo monetario internazionale, i risultati sono ancora più allarmanti. L’analisi di Gianfranco Polillo
Le recenti previsioni economiche della Commissione europea hanno assunto un significato particolare. Diverse le ragioni. Sono le prime che dovrebbero, in qualche modo, confermare o smentire le nuove regole del Patto di stabilità e crescita. Vedere cioè se esse rispondano o meno alla dinamica del reale o invece non siano state solo la conseguenza di un vecchio schema ideologico. C’è poi tutta l’incertezza della situazione internazionale sia nel campo di Agramante (Russia, Corea del Nord, Iran, Yemen e Cina) sia tra gli alleati del prode Orlando. Basti pensare, in questo secondo caso, alle incognite dell’avvento di Donald Trump di cui è difficile prevedere le mosse future ed i loro riflessi sui complicati equilibri occidentali. E infine quei movimenti erratici (dalla fornitura di materie prime strategiche alle catene internazionali del valore) che stanno ridisegnando i rapporti economici e finanziari dell’intero Pianeta.
In Europa il fondamento prescrittivo delle nuove regole del Patto di stabilità, dopo l’intervento dei Paesi frugali contro le prime ipotesi della stessa Commissione europea, era rappresentato dalla DSA: Debt Sustainability Analysis. Quella “metodologia utilizzata dalla Commissione europea” come spiegato nel Piano Strutturale di Bilancio (pag. 175) – che “è volta a determinare il percorso di aggiustamento fiscale che metta il rapporto debito/PIL su un sentiero di riduzione ‘plausibile”. Tutti gli altri elementi della prescrizione, a partire dal valore della spesa primaria netta, l’argine invalicabile alla crescita della spesa, devono essere coerenti con i valori della DSA, al fine di evitare che durante le successive verifiche (ben più stringenti, rispetto alle precedenti regole del “braccio correttivo”), si potesse incorrere nelle conseguenti sanzioni.
Un indirizzo così unilaterale, destinato a prescindere almeno in parte dalla reale situazione congiunturale di ciascun Paese, era ed è giustificato? I dati delle previsioni d’autunno della Commissione europea consentono di sciogliere il dilemma. Le previsioni sull’andamento del debito in rapporto al Pil indicano, per l’intera eurozona, una crescita pari all’1,1 nell’intero quadriennio. Si passerebbe, infatti, dall’88,9 per cento del Pil nel 2023 al 90 per cento del 2026. Ancora più favorevoli le previsioni dell’Fmi che stimano in uno 0,7 per cento la crescita nell’intero periodo. Mentre per quanto riguarda il complesso della Ue la differenza è pari solo a qualche decimale di punto. Il debito complessivo aumenterebbe infatti di 1,3 punti, collocandosi tuttavia ad un livello più basso rispetto ai Paesi dell’euro. Con una differenza media di circa 6,6 punti. L’insieme dei dati riportati dimostrerebbero, quindi, una relativa stabilità finanziaria, nella sua dinamica tendenziale, dell’intero Continente. Tale da rendere per lo meno discutibili ulteriori ipotesi generalizzate di stabilizzazione.
A tener basso il rapporto debito/Pil hanno contribuito fattori diversi. Il maggior deficit di bilancio ha inciso, in media, per circa il 3,5 per cento l’anno, compensato in larga misura dalla crescita del Pil nominale (3,6 per cento in media) in cui il tasso d’inflazione (deflatore del Pil) ha avuto un ruolo determinante pari a due terzi del totale. Con conseguente tosatura a danno dei possessori dei titoli del debito sovrano che, in termini reali, non hanno avuto alcun beneficio. Gli interessi percepiti sono stati infatti erosi dall’inflazione, determinando ciò che in finanza è considerato un rimborso anticipato del debito stesso. Il cui peso, per il solo effetto dell’inflazione, diminuisce nel tempo.
Naturalmente i dati riportati riguardano il complesso dell’Eurozona e della Ue. L’analisi disaggregata per aree mostra, invece, fenomeni più differenziati tra Paesi virtuosi e Paesi ben più prodighi. Appartengono, nell’ordine, alla prima categoria, la Grecia (fatto sorprendente con -21,2 punti), Cipro, l’Irlanda, il Portogallo (altra sorpresa), la Slovenia e la Spagna. Sei Paesi sui 18 considerati. Gli altri dodici, invece, presentano squilibri di dimensione diversa. In testa è la Finlandia, con una crescita del rapporto debito/Pil di ben 8,2 punti, tra il 2023 ed il 2026; segue la Francia con 7,2, quindi la Lettonia, la Slovacchia e l’Estonia. Per l’Italia, l’incremento è pari a 4,5 punti nel triennio considerato. Negli altri casi, salvo l’Austria, si resta al di sotto dei 3 punti. Brilla infine, la Germania: saldo tendente a zero.
Inizialmente la Commissione europea aveva cercato di tener conto di queste diversità, che non hanno natura contingente, prospettando una riforma del Patto di stabilità le cui prescrizioni, in termini di politica economica, dovevano adattarsi alla diversa realtà delle singole economie. Ne sarebbe derivate politiche differenziate seppure orientate verso il comune obiettivo della maggiore salvaguardia finanziaria dell’euro, in quanto moneta comune dell’intera eurozona. Si sarebbe così attivato un dialogo ben più serrato tra la Commissione stessa e i responsabili economici dei singoli Paesi. Troppa liberalità per alcuni esponenti dei Paesi frugali, ossessionati dall’idea che solo il trionfo di un algoritmo uguale per tutti era in grado di garantire un controllo adeguato sui Paesi più spendaccioni. Che tra parentesi, come mostra il caso della Grecia, non appartengono alla categoria dei predestinati. E così quelle regole “stupide” (copyright di Romano Prodi da presidente della Commissione europea) tali sono rimaste, nonostante le modifiche apportate che non hanno, tuttavia, scalfito il vecchio zoccolo duro che le aveva caratterizzate.
Da qui le conseguenze. Negli stessi calcoli della Commissione, l’eurozona nel periodo 2024/2026 crescerà della metà rispetto a quanto si prevede per gli Usa. Se poi si considerano le previsioni del Fondo monetario internazionale, i risultati sono ancora più allarmanti. Fermo restando il dato americano, la crescita dell’eurozona sarà pari solo ad un terzo quella della Cina, al 40% dell’Iran e al 60% della Russia, nonostante le guerra scatenate da questi ultimi Paesi sia direttamente o per interposta persona. Insomma, quel divario tra le diverse aree del Globo, che era stato al centro delle preoccupazioni di Mario Draghi, nel suo celebre rapporto sui destini dell’Europa, è destinato non solo ad aumentare, ma ad estendersi a quei Paesi che, seguendo le tesi di Von Clausewitz, non hanno esitato nel ricorrere alle armi per inseguire la propria egemonica determinazione.
A ben vedere, quindi, è la disattenzione, seppure relativa, nei confronti dello sviluppo il vero limite delle nuove regole europee. Rispetto a questo obiettivo prevalgono altre preoccupazioni: dagli assetti di finanza pubblica alla declinazione di una politica ambientalista tanto velleitaria, quanto inconcludente. Ma che, tuttavia, agisce come freno ulteriore allo sviluppo delle forze produttive nella loro forma storicamente determinata. Si pensi solo al costo del “green deal” che la stessa Commissione europea valuta in circa 900 miliardi di euro l’anno fino al 2030. Risorse che, ovviamente, mancano all’appello, ma il fatto stesso di evocare una transizione impossibile nei tempi declamati ha avuto l’effetto di gelare il mercato dei consumi tradizionali – si pensi al automotive – oppure di consolidare la leadership tecnologica dei più agguerriti competitor della Ue nel campo delle rinnovabili. Insomma: un piccolo disastro.
Che emerge in tutta la sua contraddittoria portata, se solo si approfondisce l’analisi congiunturale. Le previsioni della Commissione indicano, per il prossimo triennio, un forte avanzo delle partite correnti dell’eurozona. Una tradizione che si ripete dalla nascita dell’euro. Nel triennio le cifre indicano una percentuale media pari al 3,7 per cento del Pil, contro un disavanzo degli Stati Uniti di qualche decimale più basso. In moneta sonante si tratta di un attivo di oltre 500 miliardi di euro l’anno, contro un passivo americano di oltre 945 miliardi. Ovviamente non tutto dovuto solo ai rapporti commerciali tra i due Paesi. Nella loro crudezza queste cifre indicano, tuttavia, la distanza, in termini di visione, tra le due sponde dell’Atlantico. L’Europa (ma purtroppo anche l’Italia considerato il suo attivo valutario) stressa la domanda interna privilegiando una stabilità finanziaria che somiglia, come una goccia d’acqua, alla vecchia austerity. E per ottenere questo risultato è anche disposta a vivere al di sotto delle proprie possibilità. Gli Stati Uniti, invece, guardano avanti, convinti che alla fine la maggiore disponibilità di risorse, prodotte da una crescita più consistente, consentirà di far fronte anche ai debiti contratti.
Due visioni opposte che fino ad oggi erano riuscite a convivere grazie al compromesso reso possibile dall’evolversi di una situazione internazionale ben diversa da quella che sta insanguinando i confini del Vecchio Continente. Un retroterra che oggi non esiste più. La competizione, a volte pacifica, altre volte militare, è, infatti, enormemente cresciuta. Ma l’Europa si comporta come le tre scimmiette che non vogliono né vedere né sentire né parlare. Come se questo bastasse a scongiurare ogni pericolo. E non fosse invece il preoccupante segnale di una beota inconsistenza.