Per uscire dallo stigma, il gioco legale deve essere portato alla luce del sole come antidoto all’illegalità. La politica occorre che si faccia promotrice di una regolamentazione uniforme, anche per incentivarne l’applicazione negli enti locali. Tutte le proposte emerse durante l’incontro al Capranichetta
Là, dove si allunga l’ombra dello stigma sul gioco legale, si aprono praterie per quello illegale. Un’operazione culturale, dunque, tanto urgente quanto quella di dare un’organicità regolatoria all’impianto normativo che disciplina questa materia.
Sono stati questi i focus su cui si è concentrato il seminario di ieri sera, a Capranichetta, organizzato in collaborazione tra Formiche e Igt, moderato dalla direttrice di Healthcare Policy, Alessandra Micelli.
Alla base del ragionamento – che si inserisce in un contesto di diversi appuntamenti – c’è la ricerca svolta da Swg e presentata dal responsabile Riccardo Grassi.
L’analisi, che ha coinvolto quattrocento giocatori abituali, si articola su diversi fronti. Ma il dato più lampante che emerge è la percentuale, pressoché esigua, dei cosiddetti “giocatori problematici”. Ossia di coloro per i quali il gioco può degenerare in patologia. Oltre il 90% del campione, dimostra invece di essere un giocatore “sano”. Fra l’altro la spesa media per il gioco su base mensile è per lo più inferiore ai cento euro. Di qui l’elemento di interesse che in qualche modo smonta il pregiudizio sul gioco legale: il 70% degli intervistati ha dichiarato di giocare per divertirsi.
Ed è per questo che l’auspicio di Emmanuele Cangianelli, presidente, EGP – Associazione esercenti giochi pubblici, è che “ci sia un maggiore supporto alle piccole attività e ai punti vendita che svolgono un ruolo fondamentale come presidio per il gioco legale”.
Una forma di antidoto contro il dilagare dell’illegalità che ha un valore di circa venti miliardi. A dirlo è Luca Turchi, dirigente dell’ufficio controlli giochi, Agenzia delle Dogane e Monopoli. “Gran parte della nostra attività – spiega – si articola, oltre che al contrasto del gioco illegale sul rete fisica, anche sul web. Solamente quest’anno abbiamo inibito qualcosa come 721 siti. Il nostro obiettivo, su tutto il territorio, è quello di garantire prima di tutto i giocatori”.
È Armando Iaccarino, presidente del centro studi As.tro a sottolineare come “sia un grave errore isolare i luoghi dove è possibile giocare in maniera legale. È sbagliato ghettizzarli. Perché laddove non c’è il gioco legale, prolifera quello illegale”.
Perciò occorre puntare, oltre che “sulla corretta comunicazione, che non è la pubblicità” anche su linee più operative per fare in modo che l’offerta di gioco sia il più possibile entro la cornice della legga. Tre i cardini, sotto questo profilo: trasparenza, interazione e riconoscibilità.
Dal canto suo Emilio Zamparelli, presidente nazionale del sindacato Totoricevitori Sportivi, insiste sul “ruolo fondamentale che gli operatori svolgono, in particolare nei punti vendita di paese, per evitare che i giocatori – anche legalmente – esagerino o trascendano”. Per questo invoca una “migliore collaborazione” dei partner di filiera. Anche questa, è in fondo una strada per limitare l’avanzata dell’illegalità.
Concetto, quest’ultimo, ripreso anche da Michele Budelli, fondatore e ceo, Pg Esports e Fandango Club. “Il gaming – scandisce – ha un importante ruolo di socialità che deve essere valorizzato anche come incontro intergenerazionale. Tutto questo è possibile solamente se il gioco viene portato alla luce del sole, uscendo dal cono d’ombra dei pregiudizi”.
L’approccio di Laura D’Angeli, founder Studio D’Angeli ed esperta nel settore del gaming è orientato alla prevenzione. “Non possiamo ignorare – analizza – la forte accelerazione tecnologica che stiamo vivendo. D’altra parte, i dati di Swg mostrano chiaramente che la percentuale di giocatori esclusivi (che praticano solo una modalità di gioco, ndr) è molto piccola. Per cui, sulla prevenzione, occorre un salto in avanti per costruire una nuova consapevolezza”.
Non sono solo i dati a dimostrare che la stragrande maggioranza dei giocatori lo fanno per divertirsi. Tutto questo, come spiega Rita Mascolo, docente di Storia dell’economia e dell’impresa alla Luiss, ha una ragione storia. “L’uomo – spiega – ha da sempre la necessità di divertirsi. E, se il gioco legale viene inquadrato in questo contesto, non può essere considerato in maniera negativa. Rappresenta, in qualche misura, una necessità. Un bisogno”.
Eppure, constata con un pizzico di amarezza Niccolò Ruberti, esperto nel settore del gaming, Prisma Mag, “il settore del gaming resta tutt’ora avvolto da una folta coltre di pregiudizi che dovrebbe essere abbattuta. A maggior ragione a fronte del fatto che, come dimostrano i numeri della ricerca di Swg, solamente il 2% di questi è un giocatore problematico. Per cui è una narrazione sbagliata quella secondo la quale chi gioca lo fa per un’implacabile pulsione. Si chiama, invece, divertimento”.
I contenuti del dibattito, costruiscono il perimetro di una responsabilità che i due rappresentanti politici in sala – Ettore Rosato (vicesegretario di Azione) e Andrea de Bertoldi (Misto) – colgono e in qualche misura assecondano.
“Esiste un profondo problema di carattere regolatorio sul gioco in questo Paese – scandisce de Bertoldi – perché non c’è, al momento, una legislazione uniforme che lo regolamenti. In particolare, a essere penalizzati sono gli enti locali e le Regioni. Tutelare il gioco legale deve essere una priorità per la politica, in particolare per sconfiggere fenomeni di stampo mafioso e legati al riciclaggio (oltre che alle patologie ludopatiche). Su questo, un primo passo potrebbe essere quello di adoperare la leva fiscale sul gioco. Così facendo, probabilmente si otterrebbe anche il consenso degli enti locali”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Rosato che rileva come “sul comparto del gioco si sia sempre fatta facile demagogia, che ha alimentato evidenti distorsioni”. Il problema sul piano delle regole esiste ma “non è demonizzando il gioco legale che si risolve”.
Anzi, la strada è quella di “mettere tutti nella stessa condizione” dal momento che “si tratta di una concessione di carattere nazionale”. Per cui, metodologicamente, sarebbe auspicabile che un’eventuale futura iniziativa di coordinamento partisse da “un tavolo convocato al Ministero”. E qui, la posta del gioco, inevitabilmente si alza.