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Quando il caso si fa giudice. Giurato numero 2 di Eastwood raccontato da Ciccotti

Con Giurato numero 2 (Juror #2, 2024) Clint Eastwood racconta qualcosa di tragico che potrebbe accadere a chiunque. In ogni momento. Ci aggrapperemmo alla menzogna per salvare la nostra vita e quella della nostra famiglia? La recensione di Eusebio Ciccotti

Immaginate che tornando a casa in auto, in una notte buia e di pioggia apocalittica, visibilità zero, mentre i vostri cari vi attendono (una moglie incinta; oppure dei bambini o ragazzi adolescenti; o un anziano genitore malato da assistere), improvvisamene sentiate un colpo sulla parte anteriore del fascione dell’auto, a destra. Lì per lì pensate di aver investito un animale. Come accade a diversi automobilisti in quella zona. Vi fermate, scendete: una giovane donna è stesa sull’asfalto bagnato. Morta. Nel panico, fiondato dentro una situazione irrealistica, impaurito, la prima reazione è cancellare quella brutta scena. Prendete e gettate il corpo inanimato di là dal muretto che costeggia la strada, in una scarpata. Ora siete in casa. La bocca è impastata di saliva. Siete confuso. Parlarne, significa aumentare i problemi in famiglia. Fortemente scioccato vi rifugiate nell’omissione. Nessuno mi ha visto. Purtroppo è morta. Auto-denunciarsi significa finire in prigione entro un’ora, e restarci per anni. Chi penserebbe ai vostri cari?

È quello che accade al giovane giornalista Justin Kemp (Nicholas Hoult: in equilibrio tra apparente sicurezza e angoscia). Tornato a casa, per scaricare la tensione e giustificare il danno all’auto, dice alla giovane moglie Ally (Zoey Deutsch) di aver investito un cervo. È il caso esistenziale che Clint Eastwood, negli ultimi film interessato a scrutare tra le pieghe della coscienza umana [Gran Torino, 2008, Il corriere – The Mule (The Mule, 2018); Cry Macho – Ritorno a casa (Cry Macho, 2021)], su scenario di Jonathan Abrams, analizza in Giurato numero 2 (Juror # 2, 2024).

Ma il caso, quel “destino neutro”, motore narrativo del cinema di Krzysztof Kieślowski, che si diverte a complicare le sceneggiature rendendole interessanti, trasforma, dopo un anno, il “sereno” Kemp, che premuroso torna a casa ogni giorno aspettando che la bella Ally partorisca, in uno dei giurati sorteggiato dalla procura distrettuale. Consesso chiamato a giudicare, guarda caso, definitivamente, il responsabile di quell’incidente (evento rimosso dalla mente di Justin): James Sythe (Gabriel Basso: superbo), da un anno in prigione, dichiaratosi sempre innocente con rifiuto del patteggiamento. Colpevole, secondo le indagini, poiché nel bar aveva litigato con la sua fidanzata, Kendall Carter (Francesca Eastwood), alzando la voce, e lasciandola andare a casa a piedi, sotto un inclemente temporale. James, l’aveva chiamata, invitandola a salire in auto, ma lei era troppo arrabbiata («Era così, il giorno dopo facevamo pace. Era normale» spiega James). Poi James aveva fatto inversione ed «ero tornato a casa». Ma per i testimoni di quella sera James è il naturale omicida. Così decretarono le sbrigative indagini della polizia. Nello stesso bar, fra i tanti avventori, casualmente, c’era anche Justin. Anche lui uscì e percorse la stessa strada di Kendall. Solo lo spettatore e Justin sanno come sia andato l’incidente. Che ora in flashback inizia a tormentare la “serenità” di Justin.

La scommessa di Giurato numero 2 riposava nel rinnovare il film giudiziario, nel sottogenere del film “da verdetto”, inaugurato dall’indimenticabile La parola ai giurati (1957, Sydney Lumet: autentico saggio di regia; impareggiabile il bianco/nero di Boris Kaufmann). La variante processuale formale (oltre a quella “rivoluzionaria” del plot: il colpevole è anche un giurato) introdotta da Jonathan Abrams e Clint Eastwood consiste nello spezzare le unità aristoteliche cui inevitabilmente il sottogenere costringe la diegesi, coincidendo appunto il film con una discussione (ancorché animata) tra i giurati chiusi in camera di consiglio.

Variante di genere presa in prestito dal crime film: “indagini” suppletive inserite in sede di verdetto. Ossia, la granitica pubblico ministero Faith Killebrew (Toni Collette: caleidoscopica), concede, eccezionalmente, ai componenti della giuria, dopo che la medesima s’è bloccata da giorni sulla parità di giudizio (sei a favore della colpevolezza di James Sythe, sei contrari), di recarsi sui luoghi dei fatti al fine di meglio documentarsi. Dunque, sia nel bar, in cui avvenne la lite verbale tra James e Kendall; sia sul tratto di superstrada, dove tutte le autovetture procedono a velocità sostenuta, con la presa visione del muretto oltre il quale il corpo di Kendall fu gettato nella scarpata. Non è permesso, ammonisce la severa Killebrew durante i sopralluoghi, presenti poliziotti e lei stessa, scattare foto e/o scambiarsi opinioni.

Ecco che Eastwood trasforma una regia destinata per tradizione al kammerspielflm, al luogo chiuso, in un film (quasi) d’azione: seguiamo non solo l’indagine dei giurati in esterno, ma anche i ritorni a casa di Justin, sempre più teso e nervoso; poi le “indagini” private di Harold (J. K. Simmons: poche scene ma indimenticabili), un membro della giuria ex poliziotto, sul luogo dell’incidente, colui che ha avanzato i primi dubbi sulla colpevolezza di James; infine, il graduale cambiamento di visione del pubblico ministero.

Infatti Killebrew, un giorno, va ad interrogare il vecchio che dice di aver visto dalla finestra, attraverso il terribile temporale, James Sythe gettare il corpo della donna oltre il muretto. È l’accusa principe che ha condotto Sythe in prigione. Alla domanda come fa ad esser sicuro, considerata la distanza e la scarsa visibilità, il vecchio semplicemente replica: «La polizia mi aveva detto che era stato Sythe». E aggiunge, quasi pentito, alla pubblico ministero, incredula: «Pur essendo vecchio ho voluto, almeno una volta, essere utile alla società». Curiosamente, anche in La parola ai giurati un vecchio sostiene di aver visto l’imputato, il diciottenne accusato di parricidio, scappare via dall’appartamento dopo «aver sentito un corpo cadere sul pavimento»; ma la sua deposizione, analizzata dei giurati, appare essere quella di un «anziano di settantacinque anni, poco attento alla cura di sé, che soffre il vivere isolato, e desideroso, per un momento, di sentirsi considerato». Una coincidenza casuale o sottile citazione da Lumet?

La soluzione del caso di Giurato numero 2, per noi spettatori, inattesa e imprevedibile, si epifanizza solo nell’inquadratura finale.

 



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