Dopo l’ulteriore stretta degli americani, Pechino vieta le esportazioni dei suoi materiali chiave per la costruzione dei semiconduttori. Si tratta dell’ultimo capitolo di una guerra commerciale che si appresta a diventare ancor più calda con il ritorno di Donald Trump
Niente più gallio, né germanio, né tanto meno antimonio. La risposta della Cina alle nuove ulteriori restrizioni degli Stati Uniti sui componenti chiave per la produzione di chip arriva con la stessa moneta. Pechino ha deciso di bloccare le esportazioni dei suoi materiali “con effetto immediato”, al 100%, per “salvaguardare gli interessi della sicurezza nazionale e adempiere agli obblighi internazionali come la non proliferazione”, motivo per cui “ha deciso di rafforzare i controlli sulle esportazioni di articoli a duplice uso rilevanti verso gli Stati Uniti”. Un messaggio infiocchettato per rendere meno dura la realtà. La decisione segue quanto fatto dagli americani, che hanno annunciato una stretta su altre 140 aziende tra cui le cinesi Piotech, SiCarrier e Naura Technology. Le ragioni degli americani sono simili a quelle dei cinesi: non aiutare il nemico con le proprie risorse. Ma i secondi lamentano un “abuso delle misure di controllano delle esportazioni” con cui Washington cerca di “ostacolare i normali scambi economici e commerciali”.
Nel prossimo futuro non si intravedono miglioramenti, visto il ragionamento alla base del pensiero del prossimo inquilino della Casa Bianca. Ancor prima di insediarsi, Donald Trump ha già promesso una guerra commerciale senza frontiere, a cominciare dalla Cina che anticipa le sue mosse. Fino a ottobre non ci sono state spedizioni verso gli States di germanio o gallio, né grezzi né lavorati, sebbene lo scorso anno rappresentassero rispettivamente il quarto e il quinto mercato più grande. Anche quelle di antimonio sono praticamente state azzerate il mese scorso (-97% rispetto a settembre).
Si tratta di materiali altamente strategici, usati per la costruzione di semiconduttori, ma si ritrovano anche nella tecnologia a infrarossi, nei cavi in fibra e nelle celle solari. E, soprattutto, parliamo di materiali su cui la Cina ha pressoché il monopolio: come sottolinea la Reuters, l’anno scorso ha prodotto il 48% dell’antimonio estratto a livello mondiale, mentre in quello ancora in corso vanta oltre il 59% della produzione di germanio raffinato e addirittura il 98,8% di quella di gallio.
Sebbene nella visione di Joe Biden le limitazioni all’export dovevano servire per non contribuire agli scopi soprattutto militari della Cina, davanti a questi numeri è chiaro che ad avere il coltello dalla parte del manico sia il Dragone. Le sue aziende hanno già dichiarato di non avere troppi problemi. Empireo, una delle società inserite nella black list di Washington che produce strumenti di automazione della progettazione elettronica, ha affermato che le limitazioni non dovrebbero avere impatti significativi, mentre la Jiangsu Nata, che realizza altri materiali per la produzione di semiconduttori, è certa di farcela con le proprie forze grazie alle scorte.
C’è poi un altro problema in capo all’America, di cui avevamo scritto qui, e riguarda i suoi alleati. Se Pechino riesce comunque a trovare alternative il merito – o il demerito, dipende dal punto di vista da cui si osserva la situazione – è delle aziende occidentali che aggirano le restrizioni. Tra queste ci sono l’olandese Asml, che produce macchine litografiche, e la statunitense Lam Research, operativa nel campo dell’industria dei chip. Il risultato è che, negli ultimi nove mesi, la Cina ha aumentato di un terzo l’import di apparecchiature di semiconduttori nonostante tutto.
Piuttosto la preoccupazione coinvolge le aziende americane. Anche i colossi come Intel sono in ansia, perché molto del loro ricavato arriva dalla Cina. Le contromosse le leggeremo nel prossimo capitolo di una guerra commerciale che si appresta a diventare ancor più calda.