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Come uscire dalla stagnazione economica? Risponde il prof. Zecchini

È giunto il momento di fare maggior leva su una politica industriale più attiva di quanto messo in atto finora e integrata da misure di tipo verticale, nel senso di impostare nella sede nazionale e in quella comunitaria interventi di sostegno all’evoluzione tecnologica di specifiche filiere industriali, particolarmente quella della mobilità sostenibile. L’analisi di Salvatore Zecchini

Ormai sono diversi i segnali secondo cui l’attività economica italiana è entrata in una fase di rallentamento che porta verso la stagnazione, a meno che non intervenga un notevole miglioramento del quadro dell’economia europea e che si attenuino il protezionismo commerciale e i conflitti geopolitici sul fronte orientale dell’Ue e in Medio Oriente. L’Ocse e l’Istat nelle ultime proiezioni concordano nel ridimensionare l’aumento del Pil per quest’anno allo 0,5%, contro l’obiettivo del governo di un 1%, ma presentano dinamiche differenti per le grandezze macroeconomiche sottostanti a questo andamento.

A differenza dell’Ocse, l’Istat vede per la formazione del prodotto interno nel 2024 un contributo meno negativo della contrazione della domanda interna (-0,1% comprensiva del decumulo delle scorte contro -0,8%) e un incremento nettamente più contenuto degli investimenti fissi (0,4% contro 1,1%). In questo andamento gioca molto il consistente decumulo delle scorte, che avviene in un contesto di debolezza della domanda interna con conseguente ridimensionamento dei piani di produzione. Benché modesta, la crescita nel 2024 è resa possibile dalla resistenza delle vendite all’estero al netto delle importazioni, riflesso non di vigore delle esportazioni, che sono in lieve ripiegamento, ma di crollo degli acquisti all’estero (-2,1%) a fronte del declino sia dei consumi, sia della produzione.

Per il prossimo anno le proiezioni dei due enti giustamente non indicano un consistente rimbalzo della produzione, ma una graduale ripresa sotto l’1% (attorno allo 0,8%) con un rovesciamento dell’apporto delle due componenti. La domanda interna assumerebbe un ruolo di traino (+0,7%), mentre quella esterna su base netta non darebbe alcun apporto. La prima vedrebbe il ritorno delle famiglie ai consumi dopo gli incrementi di reddito disponibile e il rafforzamento dell’occupazione avvenuti quest’anno. La seconda sconterebbe un recupero consistente delle importazioni al di là di quello dell’export.

Queste proiezioni sono il risultato di un contesto economico, interno ed internazionale, che non tende a migliorare. Nell’ambito interno, si esaurisce la spinta del “superbonus” alle attività del settore costruzioni e si ritorna ai modesti ritmi del periodo pre-Covid. In contrasto, si dovrebbe assistere a un’accelerazione degli investimenti pubblici previsti dal Pnrr per rispettare la scadenza di metà del 2026. Si tratterebbe, invero, di un’accelerazione troppo forte perché sia realizzabile, e le autorità già parlano di chiedere a Bruxelles una dilazione delle scadenze concordate. Nella legge di Bilancio per il 2025 l’incidenza di questa spesa sarebbe del 3,5% del Pil, una quota considerevole ma appena sopra il 3,4% nel 2024, a testimoniare che non si avrà un’intensificazione. In realtà i condizionamenti del nuovo Patto di Stabilità Europeo lasciano poco spazio a un ruolo importante della spesa pubblica in disavanzo per ravvivare la congiuntura. Né gli effetti delle opere del Pnrr sembrano manifestarsi in tempi relativamente brevi, avendo soprattutto un carattere strutturale.

A parte il settore pubblico, sul versante della spesa il nodo principale è rappresentato dalla carenza di domanda sia estera che interna, a cui fa da contrappunto il persistente declino della produzione industriale, in atto da 7 trimestri su base tendenziale. I dati del terzo trimestre dell’anno mostrano esportazioni ed investimenti in arretramento e produzione del settore industriale in discesa. Non si tratta soltanto di un problema di debolezza della domanda perché l’apparato produttivo, ovvero l’offerta, accusa non poche difficoltà a fronteggiare la rivoluzione tecnologica in corso e ad adeguarsi agli spostamenti della domanda mondiale su nuovi prodotti e su economie emergenti.

La stasi dell’economia tedesca con cui quella italiana è particolarmente integrata, il passaggio al digitale e la transizione verde insieme al rallentamento dell’economia francese e all’agguerrita concorrenza dei prodotti cinesi stanno avendo pesanti ripercussioni sul settore industriale. Tutti i comparti produttivi presentano nel terzo trimestre variazioni negative con l’eccezione degli alimentari, i chimici e le apparecchiature elettriche. Al centro della contrazione sta la crisi del comparto automotive, che si riflette sulla meccanica e sulle altre produzioni complementari.

È una crisi che nasce dall’incertezza sulla svolta del passaggio alla trazione elettrica deciso a Bruxelles, dai grandi investimenti richiesti per la conversione degli impianti e delle competenze del lavoro, dalla stessa evoluzione tecnologica che non permette ancora di stabilire quale sarà la tecnologia vincente nei trasporti e dalla imprevedibilità degli avanzamenti che la Ricerca e Sviluppo può realizzare in questo campo. Nel contempo, i consumatori mostrano resistenza a convertirsi alla mobilità elettrica e se l’accettano esprimono una crescente preferenza per i prodotti cinesi, che sono all’avanguardia tecnologica e costano comparativamente meno.

L’aspetto tecnologico si intreccia con quello della debolezza della domanda estera, in quanto le difficoltà dei produttori tedeschi sul mercato cinese, che è il principale sbocco delle loro produzioni auto, si riverberano sulla domanda di componentistica italiana e su tutto l’indotto. Ne risentono più di 2000 imprese che lavorano nella filiera auto, con 170 mila addetti e un fatturato prossimo a 60 miliardi. La domanda risente anche della bassa competitività di costo del produrre nel Paese, che ha indotto l’ex amministratore di Stellantis a concentrare nel Paese le produzioni ad alto valore aggiunto ridimensionando in parallelo quelle a margini ridotti. A rendere più buie le prospettive sulle vendite si aggiungerà tra breve la politica protezionistica americana, che il prossimo presidente degli Usa ha già preannunciato.

Se ne deduce che la crisi del manifatturiero italiano non si supera semplicemente intervenendo sulla domanda interna con incentivi ma è anche necessario accompagnare con sostegni adeguati la transizione tecnologica dal lato delle imprese. Né si può ritenere che il settore dei servizi, che ha una performance positiva possa rimpiazzare l’importanza di quello manifatturiero, che sembra destinato a incidere sempre meno sulla formazione del reddito nazionale. L’industria conserva, invece, un ruolo centrale anche per lo sviluppo dei servizi, oltre che per far progredire il Paese nella produttività e competitività.

Per uscire dalla stagnazione economica il governo non può contare meramente sull’effetto della discesa dei tassi d’interesse, sulla ripresa della congiuntura in Germania e in Francia, e sull’impatto degli investimenti e delle riforme contenuti nel Pnrr. L’allentamento della politica monetaria, come è noto, si dimostra meno efficace nel sollecitare la ripresa economica rispetto al compito di smorzarla per placare le spinte sui prezzi. Il rilancio della crescita nelle due maggiori economie europee attraversa difficoltà strutturali della transizione tecnologica ed energetica analoghe a quelle italiane. Gli interventi compresi nel Pnrr hanno efficacia nel medio-lungo periodo più che effetto congiunturale, come si è visto in questi anni della loro attuazione.

Dal lato della politica di bilancio l’indirizzo del Paese non può che essere moderatamente restrittivo in presenza di cospicui e protratti disavanzi. Pur entro questi limiti le autorità conservano un certo spazio di manovra sul duplice piano dell’indirizzo da dare alla spesa pubblica e delle misure di politica industriale. Gli interventi di spesa andrebbero concentrati sulla sollecitazione degli investimenti per il rinnovo industriale e sui progetti di ricerca e innovazione in campo energetico, che promettono di abbattere i costi e le emissioni clima-alteranti. L’ultima manovra di bilancio, invece, concentra le risorse disponibili sul sostegno dei redditi medio-bassi e di riflesso sui consumi, col rischio che vadano a vantaggio delle produzioni straniere. Gli incentivi alla “transizione”, quali Transizione 5.0, dal canto loro si dimostrano di ardua applicazione e restano poco richiesti.

È quindi giunto il momento di fare maggior leva su una politica industriale più attiva di quanto messo in atto finora ed integrata da misure di tipo verticale, nel senso di impostare nella sede nazionale e in quella comunitaria interventi di sostegno all’evoluzione tecnologica di specifiche filiere industriali, particolarmente quella della mobilità sostenibile. Trattandosi di forme di aiuto non si può fare a meno del consenso europeo, né si può deviare dal percorso di riequilibrio tracciato nel Piano Strutturale di Bilancio sottoposto a Bruxelles. Esistono, tuttavia, strumenti il cui impiego non travalica questi limiti.

Uno strumento è dato dalle garanzie pubbliche a finanziamenti per progetti d’investimento nelle nuove tecnologie. Un altro riguarda il potenziamento dei progetti europei di avanzamento nell’innovazione tecnologica, espandendo gli Ipcei ed integrandoli con attività di assistenza tecnica per l’applicazione su vasta scala tra le Pmi. Altra possibilità tocca le importazioni di auto dai paesi extra-Ue: non sembra produttivo alzare barriere tariffarie in risposta a quelle di Usa e Cina, mentre sarebbero utili obblighi di consistenti componenti di produzione nazionale nelle auto e nei macchinari importati da paesi extra-Ue. Questo vincolo sarebbe modellato su quanto applicato nell’accordo di libero scambio (Usmca) del Nord-America. Altro intervento sarebbe incentivare gli investimenti diretti dell’estero nei comparti delle tecnologie di punta per ottenere effetti diffusi di trasferimento tecnologico al tessuto industriale nazionale.

Appaiono, invece, di dubbia efficacia alcune misure su cui si discute attualmente in ambienti di governo. L’introduzione di una Ires premiale per il reinvestimento in azienda degli utili, per aver impatto nel breve termine, presuppone un consistente flusso di profitti, un’evenienza che appare poco probabile in una fase di bassa congiuntura come l’attuale. In ogni caso, l’Ires premiale andrebbe accompagnata da vincoli stringenti sull’investimento in determinate tecnologie coerenti con la transizione tecnologica in cui il Paese è impegnato. Per altro verso, la richiesta a Bruxelles di una dilazione oppure di un allentamento temporaneo dei vincoli sulle emissioni di CO2 e altri gas nocivi non risolverebbe il problema per le imprese di dover impegnare grandi risorse sullo sviluppo di tecnologie in cui alcuni paesi extra-europei hanno acquisito un vantaggio competitivo difficile da colmare in tempi brevi. Sarebbe più conveniente insistere sull’affermazione del principio della neutralità tecnologica rispetto al percorso verso l’obiettivo dichiarato e sulla certezza dei traguardi da raggiungere in tempi compatibili con lo sviluppo tecnologico. Si offrirebbe al sistema produttivo un orizzonte chiaro su come programmare i loro investimenti.

Esplorati i margini possibili per rilanciare la crescita nel breve periodo, si deve concludere che le possibilità di realizzarla appaiono ridotte a causa dell’intrecciarsi di debolezze della domanda con difficoltà dell’offerta. Il risanamento di bilancio previsto dal nuovo Patto di Stabilità per i prossimi anni per gran parte della zona euro lascia pochi margini per politiche espansive, né l’allentamento di questi vincoli risolve il problema del ritardo tecnologico in parte alla radice della bassa crescita. Solo l’impegno al rinnovamento delle strutture produttive e delle competenze insieme ad avanzamenti della produttività e a un freno all’assistenzialismo potranno riportare una nuova ventata di crescita del benessere.


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