L’amministrazione Biden ha effettuato una serie massiccia di bombardamenti in Siria, contro lo Stato Islamico. Tentativo di proteggere i rivoluzionari dalle azioni dei terroristi ed evitare che la narrazione anti-occidentale di Russia e Iran torni a essere prevaricante. Ecco perché probabilmente il Pentagono continuerà l’azione tattico-strategica anche con Donald Trump
È stato il presidente Joe Biden ad annunciare che gli Stati Uniti avevano condotto “dozzine” di bombardamenti aerei contro lo Stato islamico in Siria. Sono stati 75 gli obiettivi colpiti, con 140 ordigni tra missili e bombe sganciati da F-15 Strike Eagle, A-10 Thunderbolt e perfino dai B-52 (le Fortezze volanti che il Pentagono ha posizionato in Qatar, per dare ulteriore profondità strategica al rafforzamento regionale che ha seguito il deteriorarsi della situazione generale dallo scoppio della guerra attorno a Israele).
Gli Usa continueranno ad essere “clear eyed” sull’Is, dice Biden. Ed è un messaggio che serve anche come passaggio di consegne, considerando che poche ore prima aveva parlato il suo successore, il presidente eletto Donald Trump, il quale invece evidenziava che, fermo il fatto che “in ogni caso, la Siria è un casino”, e che Barack Obama ne era responsabile (questo dice la dichiarazione di Trump, condivisibile o meno), “gli Stati Uniti dovrebbero avere nulla a che fare con esso”, perché “non è la nostra battaglia. E infine: “Non facciamoci coinvolgere”. Il messaggio trumpiano, scritto tutto in maiuscolo per evidenziare che quello è il cuore del suo pensiero, include anche una nota polemica nei confronti della Russia.
Mosca — che sta dando asilo politico al rimosso satrapo siriano Bashar al Assad — “sembra incapace di fermare questa marcia letterale attraverso la Siria, un Paese che hanno protetto per anni”, dice Trump, perché “sono così tanto coinvolti in Ucraina, con la perdita lì di oltre 600.000 soldati”. Ossia il presidente eletto (ritenuto potenzialmente friendly con la Russia) ha spiegato la caduta del regime di Assad con la debolezza russa, che comporta l’incapacità di difendere una delle sue principali proiezioni geopolitiche. Da qui, l’ondata di bombardamenti dell’amministrazione Biden contro lo Stato Islamico in Siria va letta con un’ottica ampia.
Gli Stati Uniti da anni mantengono delle postazioni avanzate (principalmente nell’area del Corridoio dell’Eufrate che lega Siria e Iraq) perché le considerano fondamentali per il controllo delle attività dello Stato Islamico. Dopo l’exploit del 2014-2016 l’Is non è scomparso infatti, ma ha assunto una forma meno pubblica: serpeggia all’interno di contesti tribali centro-orientali siriani, dove il regime non era più presente, continua le sue predicazioni in modo meno esplicito, compie poche dimostrazioni esplicite e diverse azioni sotto coperta. È in una forma molto simile a quella che aveva caratterizzato gli anni precedenti alla manifestazione pubblica vista un decennio fa, riuscita anche sfruttando il contesto della guerra civile siriana.
Anche per questo gli americani — che hanno guidato la cosiddetta “Coalizione internazionale” che ha combattuto e sconfitto la dimensione statuale raggiunta con il Califfato — non vogliono perdere contatto e terreno. Il rischio è anche avallare la narrazione di Russia e Siria, che racconta l’intervento dei due partner a sostegno del regime assadista amico come una grande operazione per sconfiggere l’Is e il terrorismo internazionale. In questo racconto infatti i rivoluzionari siriani vengono tutti classificati come terroristi: è questo che permette a Mosca e Teheran di rendere giustificabile l’intervento esterno nei confronti delle loro collettività (che, come gli americani, non amano quelle che Trump definisce le “endless wars”) e renderlo anche appealing a livello internazionale (in tanti, anche in Italia, continuano a seguire in buona o cattiva fede questa narrazione, addirittura accusando l’Occidente di aver prodotto il “problema Isis” e lodando Vladimir Putin per averlo risolto).
Da qui, allora: l’ondata di bombardamenti americani delle scorse ore serve perché evidentemente l’intelligence statunitense (e forse non solo) avevano monitorato che nel caos del crollo del regime, lo Stato Islamico ne poteva trarre vantaggio. C’è una direttrice più banale e diretta: i lealisti in fuga — tra loro anche le forze russe e iraniane presenti in Siria — hanno lasciato postazioni ed equipaggiamenti, che i baghdadisti avrebbero potuto prendere. Era già successo negli anni scorsi in Siria e in Iraq. Questo avrebbe prodotto un rafforzamento delle capacità militari dell’Is, che poteva essere sfruttato per un rinvigorimento dell’organizzazione.
Qui sta un livello di complessità ulteriore, che rende l’operazione anche una necessità indiretta. Lo Stato islamico detesta i rivoluzionari siriani: considera la loro battaglia impura, perché non mira all’istituzione di un Califfato globale. L’Is ha anche un conto aperto profondo con Hayat Tahrir al-Sham, la milizia attualmente più forte in Siria guidata da colui che ha il potere militare nel Paese, Abu Mohammed al Jolani. Al Jolani era uno dei pupilli di Abu Bakr al Baghdadi, ma ha rotto con lui quando è stato istituito l’Isis: da lì in poi sono diventati rivali, prima all’interno della galassia jihadista (quando Jolani era il leader della qaedista al Nusra) e a maggior ragione ora che il combattente siriano ha avviato un’ampia attività per ricostruire il suo volto, e della sua organizzazione, e farsi percepire come un potenziale attore potabile per la futura guida del Paese.
La breve ricostruzione dei rapporti tra le milizie serve per indicare che la serie di bombardamenti in Siria ordinati dal Pentagono è stata utile anche per evitare che, dal rafforzamento militare che l’Is potrebbe ottenere in questa fase caotica, le forze jihadiste possano guadagnare capacità di attacco contro i rivoluzionari. È una sorta di difesa preventiva, con la consapevolezza che ci saranno attentati e vari tentativi di destabilizzazione, perché i baghdadisti cercano sempre l’opportunità di sfruttare il caos a proprio vantaggio.
Nella sostanza la lettura indiretta dell’azione americana riguarda dunque anche un aiuto alla stabilizzazione dei rivoluzionari, ma c’è un ulteriore livello di approfondimento dell’analisi. Se infatti l’Is tornerà a colpire con forza in Siria, o a usare la Siria come piattaforma di reclutamento per attentati anche all’estero, Mosca e Teheran potrebbero raccontare la situazione come un effetto della loro uscita. Potrebbero ossia tornare a calcare sul solco della narrazione storica, dire per esempio che l’Occidente ha aiutato i rivoluzionari a rovesciare il “legittimo” governo di Assad (che in effetti ha ottenuto la presidenza con le elezioni, dove i risultati sono abitualmente sopra al 90% e il voto è totalmente truccato: sostenere l’opposto significa soltanto essere in mala fede). E dire anche che da quel rovesciamento è seguito il caos, la cessione del Paese ai “terroristi” che non sono in grado di gestire la sicurezza e si combattono per il potere.
È uno scenario non imprevedibile, anche per questo con ogni probabilità il Pentagono continuerà a seguire l’impegno tattico-strategico in Siria, pure dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca. D’altronde, pur raccontando il disimpegno nei tweet e nelle dichiarazioni pubbliche dal tono di comizio-continuo, è stato Trump stesso nel suo primo mandato a ordinare vari bombardamenti in Siria (addirittura contro le forze assadiste) e confermare il mantenimento di quelle postazioni siriane — che sono lì da anni, resistendo alle provocazioni delle milizie iraniane filo-Assad, anche nell’attesa di questo momento, per conoscere dove colpire l’Is e difendere la vittoria dei rivoluzionari dal suo rinvigorimento, per evitare che i nemici dell’Occidente tornino a usare la Siria per la loro narrazione strategica.
(Foto: X, @CentCom)