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Il M5S era già morto, ora Conte abbia il coraggio di cambiare il nome al partito. Il commento di Cangini

Per tirare a campare, Giuseppe Conte può scegliere se rifiutare alle prossime elezioni politiche l’alleanza con il Pd, condannando di conseguenza quel che resta del grillismo all’irrilevanza o accettare l’alleanza con il Pd, riconoscendo di conseguenza alla sua leader il ruolo inevitabile di candidato alla guida di un eventuale governo. Dilemmi simili a quelli che un tempo ebbe Rifondazione comunista. Il commento di Andrea Cangini

Non poteva che finire male e infatti male è finita. Nulla è rimasto del Movimento 5 Stelle antemarcia e, in fondo, è giusto così. La pretesa di rimuovere il concetto di leadership secondo il principio demagogico del “uno vale uno”, l’idea che le scelte politiche strategiche del Movimento venissero adottate non dai suoi rappresentanti ma dai suoi iscritti, la retorica della “trasparenza assoluta” nel processo decisionale, il mito della democrazia immediata, il rifiuto di utilizzare denaro pubblico, l’indisponibilità a stringere alleanze politiche nonostante la legge elettorale le imponga, la rotazione sistematica degli incarichi parlamentari, il limite dei due mandati come se la politica non fosse una professione ma un’avventura occasionale… Erano questi i punti caratterizzanti l’identità politica grillina e, immaginando che Giuseppe Conte revocherà anche il limite dei due mandati parlamentari, di questi punti non ne è sopravvissuto neanche uno.

Ma diciamo la verità, a rimuoverli non è stato Giuseppe Conte, è stata la realtà. Si trattava, infatti, di posizioni demagogiche e alla prova dei fatti la demagogia cede necessariamente sempre il posto al realismo.

Il Movimento 5 Stelle, infatti, aveva smesso di essere il Movimento 5 Stelle sin dalla nascita del primo governo Conte. Era necessaria una quota consistente di pelo sullo stomaco per aderire ad una piattaforma politica e identitaria così irrealistica, e Giuseppe Conte ha mostrato di avere una pelliccia di cincillà a foderarne l’apparato digerente. Ci voleva una particolare inclinazione al camaleontismo per dichiarare superata come nulla fosse l’esperienza del grillismo, e Giuseppe Conte ha dimostrato di possedere doti camaleontiche da primato.

Due cose si richiederebbero ora all’“avvocato del popolo”: avere il coraggio di cambiare nome al partito; rassegnarsi al fatto che non tornerà più a Palazzo Chigi con il ruolo di presidente del Consiglio. La prima è una questione di decenza, oltreché di coerenza, avendo nei giorni scorsi il medesimo Conte dichiarato che quell’esperienza si è ormai esaurita. La seconda è una questione di buonsenso. Il Partito di Conte ha un terzo dei voti che ebbe il partito di Grillo e non è ragionevole immaginare che le cose possano migliorare sensibilmente. Non lo è perché il partito ha perso la propria aura rivoluzionaria, non lo è perché lo scisma di Beppe Grillo qualcosa costerà in termini di consenso, non lo è perché la nuova identità politica improntata sui canoni del populismo di sinistra e del “pacifismo” senza se e senza ma è già incarnata dall’Alleanza Verdi Sinistra e, in parte, dal Partito democratico.

Per tirare a campare, Giuseppe Conte può scegliere se rifiutare alle prossime elezioni politiche l’alleanza con il Pd, condannando di conseguenza quel che resta del grillismo all’irrilevanza o accettare l’alleanza con il Pd, riconoscendo di conseguenza alla sua leader il ruolo inevitabile di candidato alla guida di un eventuale governo. Dilemmi simili a quelli che un tempo ebbe Rifondazione comunista.


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