Roberto Saviano intervistato da Chiara Valerio a Più libri più liberi, parla di «Moravagine», di Blaise Cendrars, un romanzo dimenticato. Che legame c’è, si chiede Eusebio Ciccotti, tra Saviano e Cendrars?
All’interno della storica kermesse di Roma, Più libri più liberi 2024, sempre più popolata di presentazioni, eventi, autori, con un gioioso via vai di lettori (giovani, adulti imbiancati, terza età, famiglie), il protagonista è lui: il libro. Lo si cerca intenzionalmente, lo si incrocia per sbaglio, ci si imbatte per caso. Appena trovato ognuno può esercitare la funzione linguistica più cara a Roman Jakobson: quella fàtica. Sfogliarlo, accarezzarlo, annusarlo e, se fortunato, allungare il piacere del testo stringendo la mano dell’autore e, per i più coraggiosi, “imprigionarlo”, per sempre, in un selfie.
Ecco che al visitatore (o al radio-ascoltatore) è capitato di imbattersi sulla frizzante conversazione tra Chiara Valerio (L’isola deserta, Rai Tre) e Roberto Saviano, nella quale, alla domanda della conduttrice, quale libro l’autore di Gomorra, metterebbe in prima posizione («in questo momento, domani cambierò, magari», precisa subito Saviano), menziona il romanzo Moravagine (1926) di Blaise Cendrars. «[È] Il racconto di un picaro, di un eroe che cerca di attraversare la vita con l’unico obiettivo di non lasciarsi determinare dalle sventure e dai privilegi. Prova a scegliere, non ci riuscirà, ciò che vive sino in fondo. Combina errori e orrori, anche crimini, ogni colta che inciampa c’è sempre la possibilità di trovare una redenzione. […] Libro molto complicato da raccontare, agevole da leggere. […] Lo termini, riparti, sembra un’altra storia. […]».
Mentre ascoltavo questo riferimento al dimenticato Cendrars (in piedi sul limitare d’una giuncaia di lettori ascoltatori stipati nella saletta, sull’orlo di una porta), mi chiedevo dell’interesse di Saviano verso quel poeta che, con Pasqua a New York (1912) e La prosa della Transiberiana (1913), inaugurava un suo modernismo, a metà tra futurismo e l’ir-realismo visivo. La risposta in realtà già ce l’avevo: il cinema.
Blaise Cendrars, infatti, spesso descrive ciò che accade attorno al narratore e ai suoi personaggi, tramite un occhio cinematografico. Come, per esempio, in Una nuit dans la forêt, ove ci sono belle pagine ambientate a Roma, nel 1921 (Va detto che nella primavera di quell’anno, Cendrars deve girare, per una produzione inglese, il film Venere nera – l’attrice doveva essere la danzatrice Dourga Derny, indiana -, ma il set va a fuoco: tutto distrutto, compreso il girato). Nel raccontare il suo soggiorno a Roma, anni dopo, seguiamo il narratore che si sta spostando in carrozza tra Via del Corso e via del Tritone. Un’autentica camera-car. Vediamo come il narratore “inquadri” una donna, Pompon, che siede in carrozza di fronte a lui. «Selon la vitesse de la voiture, j’avais parfois plusieurs images de Pompon en noir et blanc qui peristaient simultanément et avec plus ou moins de durée dans ma prunelle, comme si je l’avais perçue à travers un obturatueur déréglé».
Se consideriamo che Une nuit dans la forêt sarà scritto nel periodo 1925-27 (tra Les Castets des Landes, Parigi, Losanna e Rio de Janeiro), possiamo facilmente notare come in questo passaggio, oltre alle esperienze cinematografiche da set in qualità di aiuto-regista per Abel Gance, da J’accuse (1919) a La roue (1922), confluiscano le diverse scene del cinema d’avanguardia fissatesi nella sua memoria visiva: da Le retour à la raison (1923, Man Ray: film che lavora sulla persistenza retinica dell’immagine) ad Entr’acte (1924, René Clair).
Sempre nel 1921, nel mese di aprile, Cendrars chiude degli appunti sull’estetica del cinema, iniziati a Parigi nel novembre del 1917: L’ABC du cinéma, in cui parla, tra l’altro, di David Wark Griffith e Abel Gance. Ma anche della nuova tipologia dello spettatore di cinema, diverso da quello teatrale: «Lo spettatore [di cinema] non è più immobile sulla sua poltrona. Egli è strappato via dalla poltrona, violentato, egli partecipa all’azione, si riconosce come partecipe della folla di attori che si agita sullo schermo, egli urla e grida, protesta e si dimena».
Del resto l’amore di Cendrars per il cinema era iniziato prima degli anni Dieci. A Londra, nel 1909, mentre lavora come pianista in un teatro-cinema, accompagnando i film muti, conosce un vulcanico ventenne attore e cantante di varietà: Charlie Chaplin. Successivamente, nel 1917, Cendrars scrive una sceneggiatura, Fin du monde filmée par l’angel Garbiel e nel 1918 (con la mano sinistra, nel1915 ha perso parte di un braccio saltato su una mina al Fronte) lavora sul set di J’accuse (Abel Gance).
Egli così racconta la sua esperienza di uomo di cinema: «Facevo tutto, da l’uomo di fatica, al trovarobe, al costumista, allo scenografo, all’assistente operatore, all’l’aiuto regista, allo chauffer, al contabile; e quando i c’erano i morti facevo la parte del cadavere ricoperto di sangue di cavallo altrimenti m’avrebbero fatto perdere anche l’altro braccio se avessi tenuto in mano la macchina da presa… Questo era il cinema».
Per tutta la vita Cendrars seguirà il cinema (due soggetti tratti dalle sue opere verranno realizzati a sua insaputa), e in diverse sue opere si permette delle digressioni sul cinema: per esempio in Pompon (1927) ricorda la superlativa Lilian Ghis di Broken Blossoms (Giglio infranto,1919), di David Wark Griffith,
Torniamo all’interesse dell’autore di Gomorra per Cendrars. Se consideriamo che Saviano da anni è anche scrittore di cinema (e serie Tv: «Sin dalla prima puntata devi far accadere tre grossi avvenimenti, altrimenti il racconto non ‘tira’, e la seconda stagione non parte: questo raccomandano i produttori») è sempre più dentro la scrittura per immagini. Ecco spiegato l’interesse per Cendrars, vero uomo dell’avanguardia, che attraversava voracemente il mondo, dall’ Europa all’America all’Africa, un divoratore di libri, uno spettatore assiduo di cinema, un autore inarrestabile (poesie, racconti, romanzi, soggetti per il cinema), un co-autore di film. Tra i primi del Novecento, insieme al nostro Guido Gozzano e Franz Kafka, ad adottare delle tecniche cinematografiche all’interno della tessitura letteraria, almeno cinque anni prima degli esperimenti di John Dos Passos.
Saviano, alla domanda di Valerio, sul suo film «preferito» rispondeva «San Michele aveva un gallo dei Fratelli Taviani». Mentre lasciava la sala, attorniato da lettori e suoi fan, gentile con tutti, gli ho chiesto quale film del muto metterebbe in cima alla sua ideale lista. Risposta: “Ma l’amor mio non muore [1913, Mario Camerini]». Ho rilanciato: «E fuori dall’Italia?». Mentre ci pensava, il capannello dei lettori, tra selfie e autografi, lo ha pian piano fatto scivolare fuori dal mio campo visivo.
Mi piace pensare che Roberto Saviano, che apprezza Blaise Cendrars e questi amava David Wark Griffith, Charlie Chaplin, Abel Gance, sceglierebbe Broken Blossoms (Giglio infranto,1919, Griffith) o The Kid (1921, Chaplin), o Napoleon (1927) di Gance. O forse andrebbe verso il centro Europa: Der letzte Mann di Friedrich. W. Murnau? E perché non Čelovek s kinoapparatom (L’uomo con la macchina da persa, 1929) di Dziga Vertov?