Pechino, già criticata per le politiche repressive nello Xinjiang, teme che i combattenti uiguri presenti tra i rivoluzionari siriani possano alimentare il separatismo o tornare radicalizzati. La Cina cerca ora di costruire relazioni con il nuovo governo siriano per gestire la questione, evitando rischi interni e mantenendo un approccio non conflittuale
“Noi siamo i combattenti dal Turkistan orientale”, dice un uomo con il volto sfocato mentre parla in un video girato all’interno della principale moschea di Latakia, città simbolo del deposto potere alawita, zoccolo duro del regime di Bashar al Assad che ha controllato la Siria per cinquant’anni ed è stato rovesciato nei giorni scorsi. La vittoria dei rivoluzionari è stata conseguita nell’arco di oltre dieci anni di una guerra in cui anche quei combattenti stranieri che hanno fatto hijra (ossia il viaggio jihadista) hanno avuto un ruolo. Vengono da un luogo che non esiste sulle carte politiche, il Turkistan orientale, ma che è una terra promessa più o meno individuabile con l’area di intersezione tra la Cina, la Mongolia a est e le Repubbliche Centroasiatiche a ovest.
Per semplificare, potremmo descrivere l’East Turkistan, o Turkistan Orientale, come l’area storica e geografica che corrisponde principalmente all’odierna regione autonoma dello Xinjiang. È abitata principalmente dagli uiguri, un gruppo etnico turcofono di religione prevalentemente musulmana, oltre ad altre minoranze come kazaki, kirghisi, tagiki e hui. Una fonte siriana descrive l’uomo che parla da Latakia come appunto un uiguro. È l’input da cui nasce questa analisi, perché è proprio la presenza dei combattenti uiguri tra i vittoriosi rivoluzionari siriani che rappresenta la priorità della Cina riguardo al dossier.
Il termine “East Turkistan” viene spesso utilizzato da movimenti indipendentisti e gruppi della diaspora per rivendicare l’identità culturale, storica e politica della regione, opponendosi al controllo cinese. Pechino ha infatti lanciato da anni una campagna di rieducazione culturale con l’obiettivo di trasformare le minoranze musulmane che vivono nello Xinjiang in “bravi cittadini cinesi”. Il governo smentisce, ma ci sono testimonianze su centri di “rieducazione” in cui vengono compiute attività di pressione psicologica sui detenuti, obbligati a lavori forzati e a volte catturati tramite metodi di polizia predittiva.
La regione ha una complessità storica: per secoli è stata un crocevia di culture, commerci e religioni, situata lungo la Via della Seta. Nel XX secolo, ci furono tentativi di stabilire repubbliche indipendenti (come la Repubblica del Turkistan Orientale negli anni ’30 e ’40), ma furono rapidamente assorbite dalla Repubblica Popolare Cinese. Oggi, lo Xinjiang è una delle regioni più sensibili politicamente in Cina. Pechino giustifica la sua politica nella regione con la necessità di combattere il terrorismo e il separatismo, ma è stata ampiamente criticata a livello internazionale per presunte violazioni dei diritti umani (i programmi di sorveglianza di massa, detenzioni arbitrarie nei campi di rieducazione, e repressione culturale e religiosa). L’uso del termine “East Turkistan” è considerato politicamente sensibile dal governo cinese, che lo associa al separatismo e lo rigetta in favore del termine ufficiale “Xinjiang” (che significa “nuova frontiera”).
L’uomo che parla da Latakia dice che forse chi ascolta potrebbe anche non conoscere l’East Turkistan, perché è stato sotto la repressione culturale cinese da settant’anni. È chiaro che questo genere di comunicazione non è rivolto ai siriani liberati dal giogo assadista, ma punta a un pubblico simile a quello che sta leggendo queste righe. Vuole, ossia, alzare nuovamente l’attenzione sulla questione Xinjiang, e sottintende in qualche modo che l’esperienza siriana può anche essere un precedente — “se Allah, il Signore, vorrà, e grazie ai fratelli musulmani”. È un messaggio fortissimo per Pechino, che si è attirata addosso le critiche di mezzo mondo per ciò che sta facendo nella regione pur di provvedere a una mostruosa stretta securitaria che obliteri il problema del separatismo fuso con le istanze jihadiste.
“Loro”, dice l’uiguro da Latakia intendendo il governo cinese, ci hanno mandato via dal nostro Paese, opprimendoci esattamente come il regime faceva con voi. “Noi”, continua definendosi “i giovani mujahid dell’East Turkestan”, siamo venuti qui nel Levante, dove “Voi” ci avete accolto e “insieme” abbiamo vinto. Poi fa una rassegna dei luoghi in cui hanno combattuto (Damasco, Hama, Aleppo, le aree montuose del nord-ovest siriano, insomma tutti i teatri più accesi) e ricorda che la loro presenza in Siria è amichevole e fraterna, grata perché lì hanno trovato “una famiglia”. “Non vi lasceremo mai”, dice prima di chiudere il suo discorso con il lancio del grido “Allahu akhbar”.
È ciò che spera Pechino: ossia che gli uiguri partiti per il jihad in Siria restino in Siria — e magari convincano anche altri a seguirli ora che il Paese “è stato liberato”, a differenza dello Xinjiang. Per anni la Cina ha guardato alla guerra civile siriana con una doppia ottica. Da un lato, la partenza di individui estremisti e radicalizzati per combattere (anche sul fronte dello Stato islamico) è stata vista positivamente perché allontanava certi elementi e le istanze che rappresentavano dallo Xinjiang. Dall’altro, si temeva che l’impegno in battaglia potesse aumentare le capacità operative, nonché il senso di radicalizzazione, di questi foreign fighters e che si innescasse il fenomeno del terrorismo di ritorno — ossia la riproduzione di ciò che avevano visto e fatto in Siria sul territorio della regione cinese.
Diventa dunque ben individuabile la priorità cinese. Per Pechino è ora importante cercare di gestire la situazione. La Cina vuole evitare di subire i contraccolpi di ciò che accade in Siria, prima di tutto in termini di sicurezza. L’obiettivo immediato è che i rivoluzionari non infastidiscano in alcun modo i cittadini cinesi che vivono nel Paese. Poi, nel breve-medio termine, impedire ripercussioni interne con qualsiasi genere di ritorno (di persone, azioni o narrazioni) nello Xinjiang o altrove. Sotto quest’ottica, cercherà di agire con misura. Al momento, operazioni di evacuazione su larga scala dovrebbero essere evitate, anche perché Pechino non vuole dare la sensazione di essere in affanno e di non avere fiducia nei nuovi ruler di Damasco.
Questo serve a perseguire una narrazione non conflittuale, che passa dal distanziarsi da Iran e Russia, partner cinesi che hanno dato molto alla causa assadista e che sono i nemici giurati dei rivoluzionari — avendoli di fatto combattuti fino alla capitolazione. Sganciarsi da Mosca e Teheran serve a Pechino per non apparire sconfitta, come gli altri due. E da qui poter costruire una relazione con i nuovi siriani al potere. Da questa relazione la Cina potrebbe trarre rassicurazioni riguardo ai combattenti uiguri, che potrebbero diventare merce di scambio davanti al sostegno cinese al nuovo governo rivoluzionario siriano. In questa logica win-win, gli uiguri dovrebbero rimanere armoniosamente confinati in Siria, mentre la Cina aiuta (con varie forme di interesse e attività) la ricostruzione del Paese.