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Il malinteso ruolo economico della cultura. L’opinione di Monti

La cultura può essere chiaramente valorizzata e monetizzata sotto il profilo economico-finanziario, ma deve essere anche inserita come “fattore produttivo” di un Paese. Esistono formule matematiche che, in sintesi, descrivono la capacità produttiva di una determinata nazione e che evidenziano quanto la “tecnologia” possa amplificare le capacità produttive

Dopo decenni di indiscussa contrapposizione, cultura ed economia, negli ultimi anni del secolo scorso, hanno iniziato ad avvicinarsi sempre più, fino a raggiungere oggi, nel nostro Paese, una condizione a dir poco inusuale, con le performance dei Musei misurate in numero di visitatori, e con tutte le alte cariche di governo a ricordarci quanto la cultura rappresenti una dimensione essenziale del prodotto interno loro.

Questa grande attenzione ai “numeri” della cultura non è errata, ma è incredibilmente parziale. E rischia di far confondere uno strumento con un obiettivo, andando ad erodere il reale potenziale economico che la cultura può generare per il nostro Paese.

Prima di procedere è importante sottolineare che questa riflessione si concentra esclusivamente sulla dimensione “economica” della cultura, separando nei limiti del possibile, tale dimensione da quella più strettamente umanistica.

Bene. Guardando alla sola componente economica, è possibile distinguere differenti tipologie di effetti che la cultura può imprimere in una collettività. Il più banale e monetario è quello che oggi pare avere maggior credito: il Museo mette in vendita dei biglietti, le persone pagano per acquistare tali biglietti, e il valore aggregato di tali acquisti genera una determinata grandezza economica.

Ci sono poi gli altrettanto noti effetti indiretti, che vedono la cultura come un prodotto meramente turistico. In questo senso, se una persona si sposta da una città all’altra per poter visitare quel Museo, allora è necessario considerare che quella persona, oltre ad acquistare i biglietti del Museo, acquisterà anche servizi di trasporto, prenoterà alberghi, mangerà in ristoranti, e via discorrendo.

Si tratta di una visione un po’ più raffinata, ma riflette una visione ancora parziale della cultura e vale a dire la cultura come “prodotto” cui viene associato uno specifico “consumo”, per ottenere il quale si rendono necessari altri consumi collegati.

Detta in altri termini, se al posto della cultura, qui mettessimo un particolare bene o un particolare servizio, il discorso sarebbe altrettanto coerente.

Facciamo un esempio: in occasione di una fiera di prodotti vintage, una serie di persone si recano presso uno spazio fieristico cittadino (trasporti), pagano il biglietto di ingresso, e all’interno della fiera acquistano specifici prodotti e servizi, per poi proseguire la propria giornata con una cena e un pernottamento in un albergo.

La maggior parte delle ipotesi di governo, così come la maggior parte degli approfondimenti sul tema, pare proprio andare in questa direzione, rendendo la “cultura” un servizio alla pari di qualsiasi altra tipologia di contenuto.

La dimensione economica della cultura si dirama ben oltre tali aspetti, e ha degli effetti macro-economici che permeano molto di più l’intera collettività.

Un esempio, forse un po’ assurdo, può aiutare a comprendere la questione. Si prenda un piccolo comune che conta più o meno 300 abitanti. Si assuma che tutti e 300 gli abitanti siano analfabeti e sappiano parlare soltanto un dialetto locale (non italiano) esclusivo di questo piccolo comune. L’economia su cui si basa tale comune è un’economia prevalentemente agricola e di sussistenza, e ipotizziamo, ancora, che tutti gli abitanti di questo comune non abbiano contatti all’esterno dello stesso.

Si pensi ora che il ministero decida di organizzare una fiera del libro in questo comune: tutti e 300 gli abitanti, data la novità, si recano presso tale fiera (pagando un biglietto) e acquistano ciascuno di loro 10 libri (con un costo medio di 10 euro a testa).

L’attuale logica vedrebbe questa iniziativa come una “best-practice”: c’è stato un consenso unanime, e le persone hanno speso per comprare libri. In realtà, si tratterebbe semplicemente di consumi, che non avrebbero impatto alcuno di lungo periodo su quella piccolissima collettività. Se nessuno legge i libri che ha acquistato, i libri valgono soltanto il proprio valore di copertina. Nulla più.

Ora ipotizziamo invece che dei 300 abitanti di questo surreale comune, ci siano 2 persone alfabetizzate, che sappiano leggere e scrivere in italiano e che sappiano leggere quanto è scritto nei libri.

Ipotizziamo che uno dei libri acquistati illustri una tecnica per migliorare la coltura di un determinato tipo di ortaggio. Una condizione di questo tipo potrebbe trasformare in modo concreto e reale la condizione economica del paesino, incrementando la produzione di quell’ortaggio, andando ad accrescere lo stock e quindi permettendo alla popolazione di scegliere tra una produzione più variegata o per l’esportazione all’esterno degli ortaggi prodotti in esubero.

Per quanto assurdo possa sembrare, il nostro Paese vive oggi una condizione non del tutto dissimile da quella del comune: premiamo il numero di visitatori, favorendo la dimensione quantitativa della fruizione, ma non abbiamo reali politiche che mirino alla riflessione su cosa la cultura possa generare in termini di produttività generale del nostro Paese.

L’esigenza di far cassa induce tutti i nostri Governi a ragionare in termini di spesa corrente da parte di cittadini e turisti, ma un libro non letto non genera realmente uno sviluppo economico, incrementa soltanto un trasferimento di denaro da un soggetto (il consumatore) ad un altro (il produttore) e allo Stato (attraverso l’Iva).

Fin quando il libro resta all’interno della propria confezione, è un prodotto che non ha alcun valore economico aggiuntivo rispetto ad un qualsiasi altro bene di consumo. Il valore economico della cultura inizia proprio quando il libro viene letto.

Da questa ovvia riflessione scaturiscono delle conseguenze che vengono raramente applicate a livello sistemico. Si prenda, ad esempio, la linea di sviluppo personale e professionale che viene normalmente associata alle facoltà umanistiche.

L’idea di base è pressoché questa: si sceglie un indirizzo di studi, che porterà ad avere delle conoscenze in quel determinato ambito, e tali conoscenze saranno da preludio ad una professione che sarà perfettamente coerente con quell’ambito accademico. Ad esempio: si studia archeologia per diventare archeologi.

Questo approccio, in realtà, trasformerebbe il piccolo villaggio di 300 abitanti da surreale a grottesco: un’economia di sussistenza, con una produzione invariata rispetto a quanto accadeva prima della fiera del libro, ma con un’area archeologica aperta alle visite.

Condizione che, per quanto grottesca, non risulta poi così lontana dal nostro Paese, con produzioni invariate ma molti più camerieri e albergatori.

Sarebbe invece molto più produttivo chiedere a quella persona che ha letto il libro di archeologia in che modo popoli precedenti hanno potuto affrontare una condizione di crisi economica, o quali strutture venivano realizzate per conservare meglio i prodotti, o ancora comprendere quali tipologie di governo potrebbero risultare più efficaci per favorire lo sviluppo economico, individuale e sociale della popolazione.

La presenza del nostro Patrimonio deve estendersi alle idee, alla capacità di guardare la realtà con occhi e prospettive differenti, lo sviluppo di capacità di intuizione, la capacità di guardare alle proprie esistenze non nel “tempo dell’esistenza”, ma “nel tempo di secoli”.

La cultura può essere chiaramente valorizzata e monetizzata sotto il profilo economico-finanziario, ma deve essere anche inserita come “fattore produttivo” di un Paese. Esistono formule matematiche che, in sintesi, descrivono la capacità produttiva di una determinata nazione e che evidenziano quanto la “tecnologia” possa amplificare le capacità produttive.

Eppure, la tecnologia, che risulta essere il grande tema del nostro tempo, è essa stessa funzione della cultura. Ma anche qui è necessario sfatare un falso mito, perché appare sempre più evidente che questa relazione sia del tutto condivisa in una logica di catena di creazione del valore. È ovvio a tutti che la cultura influenza la tecnologia allorquando immaginiamo la cultura come insieme di conoscenze tecniche e specialistiche che sono necessarie per poter sviluppare tale ramo di produzione della società. Ma si tratta soltanto di una delle dimensioni attraverso cui la cultura può influenzare lo sviluppo tecnologico. Un’altra dimensione, ed è forse quella che ha realmente generato i più grandi cambiamenti tecnologi degli ultimi 30 anni, non ha nulla a che vedere con la capacità di programmazione. La grande rivoluzione che ha portato nuovamente la Apple ad essere un punto di riferimento mondiale non è stata affatto determinata dalla capacità di saper scrivere sistemi operativi migliori. Si è piuttosto basata sulla capacità di un essere umano di osservare la propria realtà e cercare di comprendere come fornire un servizio che rispondesse ad un bisogno condiviso in modo più efficace delle soluzioni che erano già presenti sul mercato (e quindi nel mondo). L’internet of Things nelle sue dimensioni più banali è semplicemente la volontà di collegare i vari oggetti del nostro quotidiano in modo che possano essere in qualche modo gestiti attraverso gli strumenti digitali. Tesla nasce dall’esigenza di utilizzare altre forme di energia. L’intera cibernetica contemporanea, le cui applicazioni più evidenti sono oggi legate alla robotica, deve moltissimo agli studi di un matematico che si interrogò, insieme a tanti altri specialisti di discipline differenti, del ruolo “dell’osservatore” all’interno di un sistema, ponendo le basi per una riflessione che interpretasse l’essere umano come sistema aperto, e non più come un sistema chiuso.

La spinta innovativa che gli italiani hanno avuto per secoli è proprio il valore economicamente più rilevante della cultura e della conoscenza. La partita doppia non si sarebbe probabilmente sviluppata in modo così esteso senza l’introduzione della numerazione araba. Il concetto di ipertesto, che è alla base del Web (che è diverso da internet, anche se spesso lo dimentichiamo), è attribuibile ad un sociologo.

La grande rivoluzione industriale del nostro Paese sarà possibile quando saremo in grado di restituire alla fruizione culturale il ruolo che essa dovrebbe realmente giocare all’interno della vita di una collettività: la capacità di osservare, analizzare, apprendere e osservare adottando punti di vista differenti, che si riflettano poi sulla nostra capacità di osservare il mondo. Questo, consentirà di comprendere anche al nostro ormai inadeguato sistema universitario, che la separazione delle discipline non necessariamente deve tradursi nella separazione delle “carriere”.

Sino a quando perseguiremo delle politiche che invece inducono le persone a guardare ad un Picasso come se guardassero un “disegno strano ma che è diventato molto figo e che per questo va assolutamente visto”, probabilmente avremo tanti più alberghi e ristoranti, ma sempre meno persone che dall’insieme delle proprie conoscenze faranno emergere delle intuizioni delle imprese, dei servizi nuovi in grado di migliorare, anche se di poco, la vita delle persone.


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