Skip to main content

Cosa resta di Fabriano dopo la chiusura della cartiera. Scrive Castellani

La fine dei fogli A4 per noi fabrianesi, abituati ad essere ovunque riconosciuti come abitanti della città della carta, è un dolore. Ma Fabriano è molto di più nel senso che è la metafora, ieri felice e oggi triste, dell’Italia industriale. Le riflessioni del politologo della Luiss, originario della cittadina marchigiana, Lorenzo Castellani

Due parole sulla mia città, Fabriano, tornata alle cronache per la chiusura della cartiera. La fine dei fogli A4 per noi fabrianesi, abituati ad essere ovunque riconosciuti come abitanti città della carta, è un dolore.

Ma Fabriano è molto di più nel senso che è la metafora, ieri felice e oggi triste, dell’Italia industriale.

Le origini della produzione della carta non sono chiare, ma le prime tracce emergono a metà del 1200. Da quel momento in poi a Fabriano si installa una tradizione artigianale-produttiva che non sparirà più.

Con l’industrializzazione della seconda metà dell’800 le Cartiere Miliani diventano un punto di riferimento.

La cultura mezzadro-contadina si mescola con quella industriale. Si arriva così al miracolo economico fabrianese del dopoguerra, quello che conduce all’esplosione dell’elettrodomestico intorno alla poderosa opera della famiglia Merloni.

Questa piccola città, circa 25mila abitanti, chiusa in una valle tra gli Appennini in una regione relativamente arretrata negli anni 50 e 60, diventa per decenni uno dei Comuni con pil pro capite tra i più elevati d’Italia.

Ciò è possibile grazie al genio industriale dei fabrianesi e alla capacità dei lavoratori autoctoni. Con il boom dell’elettrodomestico arriva il distretto, i terzisti, le infrastrutture.

E, tra gli anni 70 e 80, il collegato mercato delle cappe aspiranti. Mercato di cui Fabriano diviene egemone in Europa. Prosperano realtà industriali medie importanti come Elica, Faber e molti altri più piccoli.

Negli anni 90, con la globalizzazione, il mercato si espande grazie all’export. Tuttavia, all’affaccio del nuovo secolo iniziano i primi segnali di fatica: delocalizzazioni verso Est, ricerca e sviluppo languono, protezioni politiche spingono ad un atteggiamento conservativo di alcuni dei grandi gruppi. Nel 2008, la “Svizzera delle Marche”, viene travolta dalla crisi.

Fallisce l’Antonio Merloni; Indesit, all’epoca secondo gruppo europeo di elettrodomestici, passa a Whirlpool nel 2014 (senza che nessuno da Roma dica nulla); i terzisti iniziano a saltare; la Cassa di Risparmio, gestita con le solite modalità feudali e politiche italiane, finisce nel vortice delle crisi bancarie e finisce ad Intesa (qui la leggenda narra di una liquidità tra polizze e conti correnti intorno al miliardo e mezzo delle filiali fabrianesi).

La città si trasforma: meno lavoro, molta cassa integrazione, immigrazione dal sud e dall’estero che rifugge, giovani che se ne vanno, declino demografico, crisi commerciale e immobiliare.

Non è un caso se Fabriano anticipi il populismo: i 5 Stelle vincono una elezione comunale nel 2017, i partiti di destra anticipano il boom nelle elezioni politiche ed europee.

Cosa resta oggi della vecchia Fabriano? Ancora qualche grande e media azienda come MTS ed Elica, qualche piccola-media impresa profittevole, ma anche una vasta depressione dei fabrianesi.

La società civile langue, lavoro e prosperità si sono ristrette, le prospettive sono quelle di un restringimento della popolazione in un territorio piuttosto isolato.

È questa l’Italia degli ex distretti e delle zone interne. Con una qualità della vita ancora affatto disprezzabile, ma con una sofferenza industriale enorme rispetto al passato ed una crisi di identità profonda.

Naturalmente Fabriano ha anche perso la sua influenza politica, esercitata per decenni a livello nazionale e soprattutto regionale, di cui era epicentro del potere democristiano prima e della sinistra moderata poi.

Elemento che ha portato anche ad un ridimensionamento dei servizi, soprattutto sanitari e ad una maggiore difficoltà della città nel fornire servizi e cura degli spazi pubblici. Perché la lezione è che senza industria non c’è benessere, né privato né pubblico.

Di recente due cose mi hanno colpito: una conferenza a cui ho partecipato nella mia città dove espressamente si rimpiangevano i vecchi “padroni” (si questa parola usata in modo non dispregiativo e parliamo di una città operaia) industriali rispetto al management attuale, una nostalgia che ha molto a che fare con la nostalgia in generale che attanaglia il paese; i ritmi stravolti della città: la Fabriano di quando ero bambino aveva una vita scandita dalla fabbrica, non importava che tu fossi figlio di padroni, impiegati, operai, mentre oggi può capitare di entrare in un bar alle 11 della mattina e trovarci qualcuno in età lavorativa mentre prima era sostanzialmente impossibile.


×

Iscriviti alla newsletter