Con “La stanza accanto” (“The Room Next Door”, 2024), dalla fine resa registica e fotografica, Pedro Almodóvar affronta il tema attualissimo dell’eutanasia. La sceneggiatura, però, avrebbe meritato una riflessione più filosofica anziché una soluzione meccanicistica. La recensione di Ciccotti
New York. Ingrid (Julianne Moore: calma, razionale) durante il rito del “firma-copia” (dopo la presentazione del suo ultimo romanzo) viene a sapere da una sua vecchia conoscente della situazione di Martha (Tilda Swinton, serena e isterica al momento giusto), amica che non vede da anni, ricoverata per tumore al Lincoln Memorial. Il giorno dopo, si precipita a trovarla. Martha è una ex nota inviata di guerra. Riallacciano la vecchia amicizia. Si raccontano gli anni felici, «la New York anni Ottanta era tutta sesso, droga e feste» (Martha): insomma, fu gioventù allegra. Poi, la vita e la professione le divise. Una a seguire le guerre per il mondo, l’altra a scrivere romanzi. Martha ha una figlia adulta, Michelle, che non le perdona d’averla lasciata sola per lungi periodi, di non averle mai fatto conoscere quel padre che, reduce dal Vietnam, affetto da forte instabilità schizofrenica, lasciò la giovane famiglia. Tra i ricordi delle due amiche, qualcuno le fa ridere a cuore aperto. «Abbiamo – rammenta Martha – condiviso un amante, Damian»; «Non precisamene –puntualizza Ingrid -, quando era con me voi vi eravate già lasciati!». Un amante «eccellente», concordano e ridono di nuovo, che Ingrid frequenta ancora come amico (è il tranquillo John Turturro: «Da giovane non passava giorno che non facessi sesso»).
La terapia di Martha non dà miglioramenti. Decide allora di acquistare sul dark web la pillola dell’eutanasia. Intende usare il periodo di convalescenza che l’ospedale le ha prescritto per affittare una villa nel verde, e lì «andarsene (…) pulita e asciutta», prima del peggioramento. Ma «nonostante sia coraggiosa, noi inviati di guerra sempre lavoravamo insieme a un collega. Eravamo una piccola famiglia. In quest’altra guerra [la lotta con la malattia], non me la sento di morire da sola». Chiede a Ingrid di «stare nella stanza accanto», perché quando, sarà il momento, quando se ne andrà «non voglio stare sola». Soprattutto, egoisticamente (ma Almodóvar non lo dice), Martha pensa anche a qualcuno che dovrà avvisare l’ambulanza, la figlia che non vede da decenni. Ingrid, si prende qualche ora per pensarci. Accetterà.
Le amiche vivono alcuni giorni sereni in mezzo alla natura, tranne qualche momento di tensione dovuto a equivoci (drammaturgicamente necessari). Tutto va come previsto: Martha, se ne va dormendo sul lettino al sole, in terrazza. Ingrid è fuori a pranzo con Damian, giunto in città per una conferenza sull’inevitabile fine del nostro pianeta. Il giorno dopo arriva Michelle (è la stesa Swinton, “ringiovanita”) che grazie a Ingrid, scopre come sua madre l’abbia sempre amata.
Se il problema del “suicidio” lo racconti come soluzione per interrompere/evitare il terribile e insopportabile dolore fisico prima di una straziante morte, esso è eticamente accettabile, e perderebbe anche il suo aspetto di reato. Il limite del film, visto che il dibattito è tutt’ora in corso, sta forse nella schematicità della sceneggiatura che segue un procedere meccanico: dolore, evitare il dolore, ricorso alla morte. Ci saremmo aspettati, da Almodóvar, che Martha arrivasse alla sua decisione non in maniera apodittica (con due battute ad effetto: «Voglio andarmene pulita e asciutta»; «Ti dicono di accettare il dolore perfino come arricchimento spirituale: stronzate!»), ma attraverso un ragionamento circa l’accanimento terapeutico. Insomma, andava evitato il rischio del “il film a tesi”.
La sceneggiatura poteva porre la questione del fine vita anche da un punto di vista medico, filosofico, religioso. E, perché no, discutendo/contestando posizioni pro-vita. Per esempio, quelle di Papa Francesco, ribadite anche l’8 agosto 2024. «Dobbiamo accompagnare alla morte, ma non provocare la morte o aiutare qualsiasi forma di suicidio. Ricordo che va sempre privilegiato il diritto alla cura e alla cura per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani e i malati, non siano mai scartati. Infatti, la vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata. E questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti». A cui aggiunge un’altra riflessione. «Non possiamo evitare la morte, e proprio per questo, dopo aver fatto tutto quanto è umanamente possibile per curare la persona malata, risulta immorale l’accanimento terapeutico».
Passando all’aspetto estetico va detto che anche il racconto filmico procede, a volte, per passaggi meccanici e prevedibili. Per esempio, appena le due donne entrano nella villa, ecco apparire una riproduzione di un Edward Hopper (Gente al sole, 1960). Uscite nel terrazzo, due sdraio post-moderne rimandano al dipinto visto sta pochi secondi prima. Lo spettatore smaliziato immagina a cosa serviranno. Oppure, tornate in città, nella casa di Martha – ha dimenticato di portare la pillola, la debbono cercare, non ricorda dove l’abbia messa – Martha dice a Ingrid: «Io cerco in cucina, tu vai nello studio». Normalmente lo studio è qualcosa di privato. Sarebbe dovuta andarci Martha e non Ingrid, che appunto si imbatterà in qualche lettera o diario, come ha immaginato lo spettatore.
Il racconto dà l’impressone d’incespicare in buchi narrativi rapidamente coperti dalla affabulazione di un attento Almodóvar. Si prenda la scena in cui Ingrid si reca nella palestra locale «perché sto ingrassando». Ella mostra un attimo di sconforto, quando parlando con il personal trainer, riflette sul «corpo che ti lascia quando ti ammali»: una astuta toppa narrativa, non necessaria allo sviluppo drammaturgico.
Certo, il pubblico con un diploma in tasca, oltre ai cinéphile, apprezzeranno il rimando alla vita di Virginia Woolf, al citato Hopper, alla scena finale del film The Dead (John Huston) e al cinema di Buster Keaton. Anche questi diretti occhiolini alla cultura “alta”, rischiano il citazionismo fine a sé stesso, come a palesare una limitatezza creativa nel trovare altri percorsi narrativi paralleli accanto a quello centrale dell’appuntamento con la pillola.
Dove invece Almodóvar ci sorprende come notevole metteur-en-scène? Non tanto nella direzione delle due attrici: più di quello non poteva fare, visto il copione. Infatti, inizialmente attraggono lo spettatore, poi normalizzano la recitazione. E ben venga l’inserimento dell’incontro a pranzo con Damian (le dà dei consigli su come gestire il sicuro interrogatorio cui la polizia la sottoporrà), utile al ritmo narrativo.
È nella cura della inquadratura e nei movimenti di macchina che Almodóvar mostra una innegabile maestria. Quel modo calcolato al millimetro di comporre il piano d’insieme di due personaggi colti di profilo, i campi e i controcampi, e, soprattutto, lo stingere lentamente con lo zoom ottico di pochi centimetri il primo piano per avvicinare più intensamente lo spettatore alla vicenda. Perfetta la scena della cena tra le due amiche: la disposizione della luce è caravaggesca: volti parzialmente illuminati, poi lo scuro crescente, man mano che ci si allontana dai due volti, immerge il cibo sul tavolinetto, la mobilia, la parete di fondo.
Catturano anche le riprese in rapido movimento, in questo caso a mano, come quando Almodóvar segue da vicino Fred (Alex Hegh Andersen) che, in preda ad un attacco schizofrenico, vuole correre attraverso il vasto prato, verso la casa in fiamme, entrarci dentro, perché «sento delle voci», invano fermato dalla sua moglie (Vicky Luengo).
Contribuiscono alla bellezza formale sia la scenografia di Inbal Weinberg che la musica di Alberto Iglesias. Con la villa ampiamente vetrata e immersa in un bosco di pini (è Casa Szoke, nel paese di San Lorenzo de El Escorial, vicino Madrid) Almodóvar trasmette la voglia d vivere sino alla fine di Martha. La musica di Iglesias, con prevalenza di archi, dal sapore hitchcockiano, sostiene quei piccoli momenti di suspense utili al racconto.
“La stanza accanto” (The Room Next Door), vincitore del Leone d’oro a Venezia 2024 (adattamento cinematografico del romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez) è un film inclusivo e attento a tutto il pubblico (box office), come nello spettro etico del suo autore: parla alle ragazze lesbiche, ai gay, agli eterosessuali. Piacerà soprattutto a coloro che sono terrorizzati dalla malattia degli ultimi giorni: sapere che è possibile evitare le sofferenze con la pillola dell’ultimo viaggio rasserena e vale il biglietto. E, insieme alla pillola, non è meglio andarsene, invece che recitando una inutile preghiera, cosa aborrita dall’anticattolico Almodóvar, optando per un saluto culturale? Tipo la variante della chiusa di The Dead (Joyce): «Cade la neve sul bosco, sulla piscina che non usammo, sul prato dove ti sei distesa. Cade su Ingrid e Michelle. La neve cade sui vivi e sui morti».