Nel grande scontro che vede la Cina prendere il posto che un tempo era della Russia, l’Unione europea deve decidere da che parte stare. L’Italia, che con Meloni si muove per costruire relazioni con i Paesi alleati sempre più forti, non può per dimenticare la coesione interna necessaria in un futuro sempre più incerto. Il commento di Francesco Sisci
Per la pima volta da circa mezzo millennio l’Europa non è più il centro strategico del mondo. Si è spostato nell’Asia Pacifico. Qui, nel bacino di mare e montagne al confine sud-est della Cina (o sud-ovest se visto dalla California), c’è il nuovo centro del mondo. Il centro Asia, grande snodo geopolitico globale prima della scoperta del continente americano, rimane una periferia. Ciò crea una serie di sfide vitali per l’Europa.
Durante la prima guerra fredda lo scontro centrale e tutte le sue periferie aveva a che fare con questioni direttamente o indirettamente collegate a Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi non è la stessa cosa con la Cina. Gli europei pensavano alla Cina come una questione puramente commerciale. Oggi l’hanno scoperta dietro questioni anche molto più drammatiche. È il grande sostenitore dell’economia russa, in guerra in Ucraina, ed è anche un grande patrocinatore dell’Iran, a sua volta sponsor della Siria di Assad, oggi caduta. Entrambe questioni vitali per l’Ue.
C’è un quadro per certi versi simile a quello Urss-Usa, uno scontro a due. Ma ci sono tante differenze tra Urss allora e Cina oggi. Una è che l’Urss aveva una serie di alleati e una cintura di sicurezza di stati fratelli e satelliti. Invece molti dei problemi della Cina derivano anche dal non essere riuscita ad avere rapporti positivi con quasi nessuno dei suoi vicini. Ci sono contese con Giappone, Vietnam, India, Filippine… La Cina ha essenzialmente solo partner commerciali, semi alleanze politico tattiche e di convenienza contingente. Le questioni bilaterali nella regione hanno acceso e moltiplicato i problemi della Cina con gli Stati Uniti. Senza le tensioni regionali le questioni Usa-Cina sarebbero molto minori.
Anche in risposta a questi attriti regionali, gli Usa già dai tempi del presidente Barak Obama, hanno cominciato un graduale e lungo percorso di confronto con la Cina. Il confronto è aumentato in maniera consistente fino ad oggi. I vertici della politica estera dell’attuale amministrazione del presidente Donald Trump, Marco Rubio e Michael Waltz, sono falchi sulla Cina. Rubio, fu sanzionato da Pechino per avere sostenuto la questione della libertà a Hong Kong. Inoltre, David Perdue, appena nominato ambasciatore americano a Pechino, il 6 dicembre ha scritto un articolo molto duro definendo la Cina “una minaccia esistenziale degli Stati Uniti”.
La strategia americana per ora non si delinea in maniera chiara e ci sono segnali che potrebbero apparire anche conciliatori. Per esempio, Trump ha invitato il presidente cinese Xi Jinping a partecipare alla sua inaugurazione presidenziale il 20 gennaio. Ma in questo clima l’invito potrebbe essere recepito con sospetto. Una volta che Xi accogliesse l’invito poi ci sarebbero i problemi di come verrebbe accolto. Xi cioè viene messo nella stessa fila con il Giappone, India, Vietnam? E chi di loro è davanti e chi dietro, chi viene salutato calorosamente e chi freddamente? D’altro canto, rifiutare l’invito diventa ugualmente imbarazzante. Il clima generale rende tutto complicato e difficile. Per la Cina qualsiasi posizione diventa un’alternativa tra due scelte negative. D’altra parte, è invece l’opposto per gli Stati Uniti che intorno ha Paesi solidali, oltre che alleati.
Il Giappone è un Paese alleato, invece l’Indonesia è un Paese solidale. Attraverso questa cornice ampia di rapporti militari, politici e commerciali integrati diventa più facile aumentare la pressione sulla Cina e renderle nel caso la vita difficile. Per esempio, le offensive israeliane e l’iniziativa turca hanno fatto cadere il governo di Assad privo della stampella russa e iraniana. L’Iran si è trovato in meno di un anno a perdere una serie di suoi proxy, innanzitutto Hamas a Gaza, Hezbollah nel sud del Libano e oggi Assad. Inoltre i suoi Houthi in Yemen sono sotto attacco e così le sue milizie in Iraq. A questo punto, qualunque cosa faccia l’Iran è sbagliata. Se lascia le sue milizie a sé stesse si indebolisce nella regione. Se invece cerca di aiutarle ancora, rischia di essere ulteriormente invischiato in una guerra che non riesce finora a vincere. Questa posizione iraniana diventa anche una difficoltà per la Cina, sostenitore economico dell’Iran per la contingenza dell’essere entrambi con un’agenda antiamericana.
Trappola per la Cina?
La Cina che fa? Lascia l’Iran a sé stesso? Quindi facilita questo effetto domino che un decennio dopo le primavere arabe sembra adesso arrivare fino all’Iran e mette a rischio il regime degli alleati Ayatollah. Oppure sostiene gli Ayatollah infilandosi in un altro confronto con gli Stati Uniti? Cioè, con l’attuale dottrina di politica estera cinese, la situazione di Pechino diventa oggettivamente, al di là delle intenzioni di Trump, del Giappone o dell’India, sempre più faticosa. Ciò mette la Cina in una posizione molto fragile, d’altro canto pone una serie di problemi all’Europa nel suo complesso e ai singoli Paesi europei. Essi devono darsi un pensiero di come agire, stare in questo scenario internazionale che potrebbe trascinarsi per molti anni, come si è trascinato per molti anni la prima guerra fredda.
Con una differenza: durante la guerra fredda, i Paesi europei furono intruppati militarmente nella Nato, ordinati e incoraggiati dagli Usa in una nuova organizzazione di cooperazione economica, poi evolutasi nel mercato comune e nell’Unione europea. Si trattava di arginare l’Urss appena al di là del confine, l’Europa occidentale era la prima linea dello scontro. Oggi l’Europa non è più in prima linea. La prima linea è l’Asia e il Pacifico. Quindi la reazione europea alla Cina, è affidata a sé stessa. L’America non può spendersi più di tanto per cercare di spingere gli europei da una parte o dall’altra. Sta ai singoli Paesi europei e alla Ue pensare cosa fare, e come, nel futuro.
Per gli Europei è una tema esistenziale. Ciò non solo per cosa fare con la Cina, ma anche per cosa fare con sé stessi. Gli europei dovrebbero essere più costruttivi e ritrovare un rapporto nuovo e più positivo con gli Stati Uniti, e idealmente un punto alto, comune su come affrontare Pechino. L’ipotesi, che circola a Pechino, che l’Europa possa essere usata dalla Cina contro l’America, è senza base, specie con le due guerre in corso. Ma neppure è chiaro come l’Europa possa dare un apporto creativo e costruttivo agli Usa nel confronto asiatico.
Sfide future
Oggi la Cina non necessariamente deve essere una minaccia, però certamente è una sfida, mentre la questione dell’Unione sovietica era una minaccia dichiarata. C’era un sistema comunista che voleva esplicitamente rovesciare il capitalismo. Esso aveva un sistema economico e politico diverso, sosteneva un’ideologia dell’uguaglianza assoluta, contrapposta al sistema di Stati Uniti ed Europa. La ragione d’essere dell’Urss era diffondere il comunismo nel mondo e combattere il capitalismo. Questa queste due bandiere, liberalismo e comunismo, in realtà erano figlie della stessa madre, entrambe nascevano dalla Rivoluzione francese. Infatti, anche Marx si rifà a un’ala massimalista della Rivoluzione francese, ed erano tutte interne al sistema culturale occidentale.
La Russia è certamente occidentale, si dichiarava e si dichiara la terza Roma, quindi è ed era, uno scontro per molti versi mutualmente riconoscibile dalle parti. Era mosso da dinamiche simili: voglio una chiara egemonia, ho Stati alleati, mi muovo attraverso le alleanze. Era uno scontro tutto europeo.
La Cina invece non è così, non ha un modello internazionale di questo genere, non viene dal nostro sistema culturale. Si dice comunista, ma il comunismo è una specie di mano di vernice sopra un antico sistema imperiale che ha dinamiche diverse. Quello che alcuni americani chiamano minaccia esistenziale per gli Stati Uniti è più sottile, forse più profonda della minaccia Sovietica. Ed è certamente meno riconoscibile e identificabile con certezza, visti i diversi canoni culturali.
La Cina non ha come ragione esistenziale rovesciare il sistema liberale, anzi dichiara di non volerlo fare. Ciò che fa è usare i mercati liberi in Occidente, mantenendo il suo mercato interno chiuso. Persegue tale politica anche grazie a una questione vera: cosa bisogna prendere come punto di riferimento nei paragoni per il commercio mondiale, il prodotto lordo pro capite o il prodotto lordo complessivo? I cinesi dicono: quando noi avremo un prodotto lordo pro capite uguale o simile a quello occidentale potremo avere un mercato libero come quello occidentale. Naturalmente, se ciò fosse vero e non una scusa diplomatica, date le dimensioni dell’economia cinese, le economie oggi sviluppate sarebbero travolte. Ma è un problema pratico che non elimina quello di principio. Inoltre, su ciò si innesta una sua vocazione antica dove il mondo dovrebbe ruotare intorno alla Cina. È molto diverso dal sistema imperiale occidentale basato appunto su alleanze. Su questo poi arrivano le scelte di sostegno a Paesi tatticamente utili nello scontro con gli Stati Uniti. Si appoggia la Russia, non per un’adesione ideologica ai piani neo-zaristi russi. Si appoggia l’Iran non per fedeltà all’Islam degli Ayatollah. Ma perché utili nello scontro con l’America.
Quindi ci sono almeno tre livelli di frizione. Uno, di interpretazione economica-commerciale. Due, di diversa cultura imperiale sulle questioni internazionali. Tre, di dispiegamento tattico su vicende contingenti. I tre livelli di scontro sono mischiati come in una polpetta avvelenata dove è difficile dividere la carne, dal pane o dal latte. Ciò rende molto più complicato sciogliere il dilemma in maniera pacifica. La scelta di Trump, in linea con le amministrazioni precedenti, è di essere espliciti sui motivi di contrasto tra Stati Uniti e Cina, ma nello stesso tempo di mantenere canali di comunicazione per limitare i danni ed evitare di entrare in guerra per un incidente. Inoltre, c’è anche la ricerca di spazi di comprensione e lo sforzo di togliere un po’ di legna dal fuoco.
Non ci sono comunque soluzioni facili o immediate. Bisognerebbe lavorare per parlare in canali di colloquio riservati. Tali canali forse sono già aperti. Forse sono già in corso una serie di colloqui e occorre vedere se si riesce ad arrivare a qualcosa. Il centro resta in Asia. Qui sembra che sempre più i Paesi si stiano stringendo intorno agli Stati Uniti, pur con differenze fra loro, pur cercando spazi propri, pur trovando propri solchi di comunicazione anche con Russia o Cina, come per esempio fa l’India. Una novità è che diversamente dalla guerra fredda, quando l’India era non allineata e con un buon rapporto con la Russia, stavolta l’India è inquadrata in un’alleanza militare, il Quad, con un Stati Uniti, l’Australia e Giappone. Ciò rimbalza il problema all’Europa, che deve cercare un suo spazio e una sua politica con la Cina, smettendo di essere una semplice truppa al rimorchio americano.
Coda italiana
Una coda sulla premier italiana Giorgia Meloni. In politica internazionale lei fa quello che le riesce meglio, cioè cerca di usare un fascino personale per sedurre, in senso buono, leader importanti come Trump o Elon Musk. È ottimo. Il problema è poi l’Italia. Cioè se tale iniziativa non viene seguita da un lavoro vero sullo Stato italiano, Meloni rischia di restare sola, e rischia di lasciare l’Italia da sola. Poi sia Meloni che l’Italia si ritrovano in difficoltà.
Il sistema dello Stato italiano è difficile, ma il Paese è questo.
Si può fare un esempio estremo forse osceno ma serve a illustrare una realtà. Puoi anche decidere, come fece Mussolini, di andare in guerra (non entriamo nel merito se la guerra fosse sbagliata, era folle, ma è il paragone), però devi avere i carri armati, gli aerei adeguati. Hitler decise di andare in guerra ma si armò alla bisogna e aveva uno stato in grado di affrontare la sfida. L’Italia, al di là delle intuizioni giuste o sbagliate di Mussolini, non ce l’aveva quello Stato. La colpa era anche di Mussolini che non aveva attrezzato lo Stato per la guerra che voleva.
Il paragone deve essere preso con mille pinze, però se Meloni vuole fare una politica internazionale, come sembra volere fare, deve avere uno Stato a seguirla, deve fare scelte interne consequenziali. Senza entrare nel merito delle singole questioni, però, le grandi polemiche con i giudici, giuste o sbagliate che siano, la spinosa questione dell’autonomia differenziata, spaccano il Paese. Con un Paese spaccato, che non riesce a trovare un’unità, tutta la politica internazionale, se vuole essere di sostanza, diventa forse invece vacua.