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Dalla caduta al salto

La crisi partita nel 2008 ci distrae. Il problema è ben altro, ora che con politiche economiche ampiamente espansive ed intelligenti a la Keynes abbiamo evitato che si ripetesse il crollo drammatico e subitaneo del Ventinove. Ma non abbiamo per questo risolto i nostri problemi, anzi. Oggi i macroeconomisti più attenti alle dinamiche di lungo periodo alzano la bandiera rossa di allarme per l’occidente che da quasi 40 anni, dalla metà degli anni Settanta per essere precisi, ha smesso di essere il motore che traina la crescita mondiale, cedendo il bastone del comando ai Paesi emergenti. I dati parlano chiaro. Siamo in una fase di “slump”, termine che i dizionari traducono come “caduta”. Uno “slump” ha inizio con una contrazione, solitamente abbastanza breve, perlomeno se paragonata al lungo periodo di bassa crescita che vi fa seguito e si differenzia da una recessione in quanto include anche quei momenti in cui l’economia cresce ma fatica a tornare ai livelli di occupazione precedente. La lunga caduta dell’occidente è dovuta alla lentezza (o forse l’incapacità?) con cui le più grandi economie occidentali torneranno a ripetere i risultati di un passato sempre più lontano nel tempo, quello degli anni ‘50 e ‘60, caratterizzati da vibrante crescita dell’economia e del benessere.
 
Dello slump parla da alcuni anni il premio Nobel Edmund Phelps, di passaggio per Roma alla conferenza internazionale di Villa Mondragone. Phelps si concentra su quello che lui chiama l’evidente declino nel tasso di crescita di “vitalità” degli Stati Uniti e dell’Europa. Non è solo mancanza di “innovazione”; manca all’appello nell’occidente anche il dinamismo e la voglia nella natura umana di esplorare, come se l’innata curiosità che ci ha sospinto sinora, accompagnando con essa la crescita economica, si fosse sopita. Cosa può essere cambiato in questi ultimi 40 anni, che possa spiegare questa crisi di vitalità? Phelps cerca di dare spiegazioni, conscio che si brancola nel buio quando si tratta di dare risposte a domande così ampie e importanti, ma che non farlo finirebbe, paradossalmente, per certificare quella malattia, la mancanza di curiosità, che pare addebitare a tutti noi.
 
Gli individui potrebbero avere mutato le loro preferenze in 40 anni, dice. Ed essere divenuti desiderosi non di lavorare ed innovare ma di meditare e contemplare e godersi il tempo libero, come prevedeva Keynes quando fu interrogato nel 1930 sull’economia che sarebbe prevalsa cent’anni dopo. Oppure si concentrano sull’accumulazione avida di breve periodo del guadagno facile. Dove è finita, insiste, la voglia dei giovani di lasciare una traccia, invece che di divenire rapidamente ricchi a tutti i costi e con qualsiasi mezzo, rendendo la crescita insostenibile? O forse, aggiunge il premio Nobel, a quei giovani non è dato di innovare anche se desiderano farlo. Troppo ampie e crescenti le barriere all’entrata, poste da uno Stato sempre più desideroso di regolare l’economia con decreti e vincoli, che costituiscono costi insuperabili per le piccole e nuove imprese, mentre le grandi in tali lacci e lacciuoli trovano paradossalmente una protezione dalle imprese innovative che permette di mantenere il comando a scapito della crescita. Le nuove grandi banche, sostiene Phelps, aggiungono sale sulla ferita, visto che non prestano con la stessa intensità fondi alle piccole imprese come invece facevano le banche locali o le filiali locali quando i direttori avevano discrezionalità nella firma dei prestiti e non erano vincolati da procedure anonime e non superabili stabilite a livello centrale.
 
Il premio Nobel salva la globalizzazione, grande novità di questa seconda metà dell’ultimo secolo. Quando gli si chiede se questa non possa spaventare i più piccoli a mettersi in gioco a fronte di un oceano troppo grande e competitivo il suo argomento è che è meglio un mercato ampio e voglioso di diversità piuttosto che una economia chiusa in cui i dittatori consumano risorse a spese della popolazione. Certo è che la globalizzazione ha portato le nostre economie occidentali a divenire più basate sui servizi e che questo cambiamento strutturale può avere condizionato la nostra capacità di essere più innovativi. Sempre che sia vero che è il manifatturiero il motore delle idee nel mondo. Anche su questo Phelps nicchia, definendola una questione aperta. Ed ha ragione. Generare servizi, anche per il manifatturiero, è attività ad alta intensità intellettuale che richiede originalità, forza creativa, studio e conoscenza dei fenomeni.
 
Mentre l’Asia si occupa della produzione dei nuovi beni per il mondo, attività su cui ha oramai un vantaggio spesso quasi irrecuperabile, forse è tempo che l’occidente si sforzi di dedicarsi ai servizi per la conoscenza per creare una nicchia di vantaggio competitivo a supporto non solo dei nostri standard di vita ma di quelli dell’intero pianeta, opera a cui sembriamo avere rinunciato da qualche decennio. È giusto dire, come fa Phelps, che è sul fronte della “lunga caduta” che dobbiamo concentrare i nostri sforzi piuttosto che sulla semplice seppur terrificante crisi del 2008. Rimettere al centro della politica l’individuo e le sue aspirazioni, la piccola impresa e la crescente conoscenza sembrano i mix di una ricetta non ancora al centro del dibattito con proposte concrete. Sarebbe bene darvi avvio, per passare dal “long slump” al “long jump”, il salto in lungo per ripartire.
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