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Draghi contro i salari bassi punta al cuore della cultura europea

Quando Draghi afferma che è necessario stimolare i consumi interni, non indica soltanto una manovra economica e finanziaria: indica una linea politica, che coinvolge l’intera vita della nostra società. Si tratta, sostanzialmente, di una concreta rivoluzione culturale, sempre più urgente, sempre più necessaria. Il commento di Stefano Monti

Sembra che finalmente, alcune delle questioni che minano lo stile di vita europeo siano riconosciute anche dagli esponenti più autorevoli del mondo economico e finanziario. Si tratta di una conquista tutt’altro che scontata, e che può generare un grande cambiamento di “paradigma”, come si usa dire.
Qualche giorno fa, l’ex premier italiano Mario Draghi ha affermato, durante il proprio intervento al Cepr (Centre for Economic Policy Research), come riportato dalla stampa, che “il modello economico basato su salari bassi non è più sostenibile.

Detto in soldoni e con molta meno eleganza istituzionale: l’Europa non può continuare a perseguire una strategia da Paese in via di sviluppo. Perché è esattamente questa la strategia di quei Paesi che, non potendo contare su sufficiente ricchezza interna, puntano la propria strategia di politica economica sul mantenimento dei salari bassi (così da incentivare gli investimenti condotti dai giganti economici del mondo), puntando sull’export (non potendo vendere abbastanza prodotti e servizi all’interno del proprio perimetro nazionale).

L’attuale situazione europea, e ancor più la condizione italiana, è molto grave, come del resto sottolinea l’ex-premier: i tassi demografici che vedono sempre più anziani che nuovi nati; il livello di debito pubblico e soprattutto, il basso livello di crescita della nostra economia, sia comunitaria che nazionale, sono segni che, proiettati avanti nel tempo, disegnano una società in declino, con una grande fetta di popolazione anziana, con una altrettanto grande fetta della popolazione in condizioni di un po’ più che sussistenza, alcune manciate di persone ultraricche, e condizioni di vita sempre più caratterizzate da un immobilismo strutturale, lontano dalle innovazioni (se non accademiche, che poi trovano molto raramente una dimensione concreta), con bassa propensione agli investimenti, con conflitti interni legati a dimensioni del tutto trascurabili, e con bassa vivacità sociale, demografica, democratica e culturale.

Se poi si tiene conto del fatto che, a queste dimensioni, si va ad aggiungere una storica inclinazione all’interventismo pubblico da parte degli Stati, e dall’altrettanto storica attitudine dei Paesi europei a ribaltare gran parte dei costi pubblici sui cittadini attraverso imposte e tasse ben più elevate rispetto ai Paesi anglosassoni, e all’immobilismo indotto dall’approccio burocratico che in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia senza dubbio rientra, allora abbiamo un quadro più completo.

La rivoluzione che Draghi auspica, quindi, chiama ad una rivoluzione culturale, e non perché ogni elemento è “cultura” per chi di cultura si occupa, ma perché, finalmente, ed è qui l’elemento rivoluzionario, dopo decenni di tecnicismi finanziari, si sta finalmente riconoscendo una linea sottile tra le dimensioni “reali” e le dimensioni finanziarie di un Paese, relazione che a sua volta comporta che all’interno delle ricette degli economisti debbano entrare, attraverso il legame che hanno con le dimensioni dell’economia reale, anche le “vite” dei cittadini.

Malgrado la dimensione aggregata comporti sempre delle complicazioni, il discorso in realtà è molto più semplice e intuitivo di quanto possa sembrare.
Su 1.000 abitanti, nel 2023, ne sono morti 11, ne sono nati 6. Dei restanti, 4,6 (e facciamo 5) sono andati all’estero. Della popolazione che resta, un quarto ha più di 65 anni. E questo ci porta dunque a circa 740 individui. Di questi altri, circa 120 hanno meno di 14 anni, e quindi, abbiamo una popolazione “in età di lavoro” (considerando l’anacronismo di questa affermazione che include in età lavorativa anche i quindicenni) pari a 620 persone.

Di questi, sempre applicando le statistiche Istat, e immaginando, per semplificare, che uomini e donne siano distribuiti equamente (50-50%), abbiamo 410 occupati persone che lavorano su 1.000. Quindi, le persone al centro della propria vita e che, all’interno di questo “ventaglio” percepiscono un reddito e pertanto partecipano alla spesa, rappresenta meno della metà della popolazione. Queste persone contribuiscono sia ai costi delle attività del settore pubblico, sia, direttamente ed indirettamente, al sostentamento delle fasce più deboli della popolazione. Questo determina la necessità di prelevare dai salari e, più in generale, dal reddito, una parte a tratti considerevole dei soldi guadagnati con il proprio lavoro.

Quindi, si tratta di avere dipendenti o indipendenti, spesso precari, che spesso lavorano in grandi città, di cui però non possono permettersi gli affitti e che quindi aggiungono all’orario lavorativo anche il tempo di trasporto casa-lavoro. In pratica, la scarsità di ricchezza porta ad una contrazione dei consumi, l’incertezza nel futuro fa sì che la maggior parte di ciò che non viene speso o versato in contributi, venga destinato al risparmio piuttosto che all’investimento. La contrazione del tempo disponibile si risolve in una minore disponibilità di “tempo libero”, inteso come tempo non dedicato al lavoro, alla salute, alla famiglia o alle altre incombenze, con una riduzione quindi di consumi culturali o in ogni caso, di tempo trascorso fuori casa, con un incremento quindi dei consumi internet e televisivi, che tuttavia non risultano essere stimolanti, con un incremento tendenziale dell’analfabetismo funzionale, del decadimento cognitivo, delle condizioni di salute, della riduzione del network sociale.

Quando Draghi dunque afferma che è necessario stimolare i consumi interni, non indica soltanto una manovra economica e finanziaria: indica una linea politica, che coinvolge l’intera vita della nostra società. Indica che è necessario fare in modo che gli italiani guadagnino di più, con condizioni di parziale sicurezza futura, con una maggiore inclinazione al consumo, e con condizioni di concorrenza lavorativa che possono portare anche ad un maggiore equilibrio vita-lavoro, e quindi un maggiore tempo libero, con incremento della cultura. Un incremento del reddito medio può a sua volta portare anche ad un maggiore flusso fiscale, da rivedere nelle dimensioni di progressività, e ad un incremento della produzione. Una dimensione che può incidere la natalità, comportando un progressivo miglioramento tra forza lavoro “futura” e “pensionati futuri”.

Si tratta, sostanzialmente, di una concreta rivoluzione culturale, sempre più urgente, sempre più necessaria.


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