Skip to main content

Clima, energia e industria. Gli ingredienti per il rilancio tedesco secondo Schlembach

Di Claudia Schlembach

La guerra in Ucraina, la rigida politica energetica e climatica dell’Ue, la politica climatica ancora più rigida dei tedeschi e il fattore demografico sono tutti elementi che minano il dinamismo dell’economia tedesca, toccando le fondamenta stesse della nazione. Bisogna tentare un rilancio della crescita che renda il più gestibile possibile l’equilibrio tra protezione del clima e industria/energia. L’analisi di Claudia Schlembach, direttore del Dipartimento di Economia e finanza dell’Accademia di politica e attualità della fondazione Hanns Seidel

Preoccuparsi per la forza economica e innovativa della Germania ha una sua giustificazione. Per il 2024 la crescita si attesta a un -0,3%, e per il 2025 le previsioni confermano la debolezza dell’economia con un dato dello 0,9%. La guerra in Ucraina, la rigida politica energetica e climatica dell’Ue, la politica climatica ancora più rigida dei tedeschi e il fattore demografico sono tutti elementi che minano il dinamismo dell’economia tedesca e che creano contraccolpi in tutti i Paesi europei, ma in Germania, Paese di industrie e grande esportatore, toccano le fondamenta stesse della nazione.

In Europa, la Germania registra il più alto consumo di energia e all’inizio della guerra in Ucraina risultava essere con oltre il 50% la nazione più dipendente dal gas russo. La conversione alle energie rinnovabili richiede tempo ed è costosa. Gli interessi di sicurezza tedeschi sono stati posti sotto lo scudo protettivo degli Stati Uniti, quindi della Nato. Ci si è permessi di non rispettare il contributo regolato a livello contrattuale del 2% di spesa per la Nato, di ridurre la capacità di difesa del Paese e, in definitiva, di perdere il collegamento con il know-how tecnologico.

Putin e Trump ora chiedono alti tributi alla Germania. In tempi di iper-globalizzazione, il campione mondiale di lungo corso delle esportazioni, in un’ottica di pura rincorsa al profitto, ha basato la sua dipendenza sugli scambi economici con la Cina. L’avanzo delle partite correnti, così fortemente disapprovato da Trump, è stato corresponsabile dell’infiacchimento degli investimenti nel mercato interno tedesco, nelle infrastrutture e nell’istruzione. Il progressivo invecchiamento dello stock di capitale lo dimostra chiaramente.

Le vulnerabilità strategiche in tali posti di comando, e di siffatta entità, non hanno una cura ad hoc. Che gli sviluppi degli ultimi decenni abbiano colpito, quasi contemporaneamente, tutti i punti vulnerabili può essere considerata un’emozionante turbolenza della storia. Senza alcun dubbio, la Germania come polo economico è diventata sempre meno attrattiva per le aziende. Tra le cause: pressione fiscale elevata – al secondo posto in Europa con il 48,1% –, carenza di manodopera qualificata senza alcuna prospettiva risolutiva e, allo stesso tempo, un’immigrazione non specifica.

La burocrazia, che secondo un nuovo studio dell’Istituto Ifo in Germania fa perdere 146 miliardi di prestazioni economiche all’anno, ci contraddistingue. Le aziende tedesche continuano ad avere un’elevata propensione agli investimenti, ma si stanno rivolgendo a piazze economiche più attrattive, e al momento guardano soprattutto agli Stati Uniti.

Questa confusione si riflette nel portafoglio dei cittadini. La comfort zone, fatta di promesse di prosperità, comoda sicurezza e un mondo accessibile da scoprire viaggiando, si è vista restringere dal timore che nell’inverno 2022 i riscaldamenti potessero rimanere spenti. La Germania ha dovuto far fronte a molteplici dicotomie, come protezione del clima versus deindustrializzazione.

Il risultato è un destreggiarsi tra individualismo e bene comune, puntando sempre di più a una massimizzazione dei propri interessi. Dal punto di vista economico, queste cose difficilmente si sposano tra loro. La Germania lotta con se stessa. Passo dopo passo, i capisaldi di ciò che Ludwig Erhard intendeva con la sua economia sociale di mercato si stanno dissolvendo: domanda e promozione, sussidiarietà e solidarietà. Questo è stato a lungo il cuore della fede nel progresso, il motore del cambiamento. Oggi invece lo Stato cerca di eliminare tutte le ingiustizie.

Ancora più di questo, si atteggia a vero competitor nella ricerca di dipendenti, offrendo in alternativa prestazioni elevate sotto forma di reddito di cittadinanza. Cerca protagonisti nel dibattito volto ad aumentare l’interesse verso le minoranze. Tutto ciò non ha più nulla a che fare con i fattori di successo dell’economia sociale di mercato. Ora la realtà non può più essere nascosta. Se vogliamo la libertà, dobbiamo investire nella sicurezza. Se vogliamo la sicurezza, dobbiamo ridurre il benessere.

E al contempo tentare un rilancio della crescita economica che renda il più gestibile possibile l’equilibrio tra protezione del clima e industria/energia. Se la Germania non vuole distruggere il proprio status di potenza esportatrice, non deve considerare il commercio come uno strumento di persuasione. Questi sono i difficili temi oggetto della discussione, da affrontare sullo sfondo delle sfide geopolitiche.

Tutto questo ha un costo elevato. La discussione sull’allentamento del freno all’indebitamento è un simbolo significativo delle difficoltà che attendono il Paese oggi se non mette in discussione anche la propria mentalità. Nessuno vuole davvero allentare il freno, perché tutti sanno che poi i desideri continueranno a crescere: a spese delle prossime generazioni, che avranno spazi di manovra politica esigui. D’altro canto, le negligenze degli anni passati non possono essere trascurate.

Ciò che è certo è che il benessere in costante crescita degli ultimi decenni non si ripresenterà più. I modi di procedere per andare avanti possono essere i più disparati, due cose però saranno decisive: trarre lezioni dal passato e verificare la resilienza delle dipendenze. E presentare un’idea di come vogliamo posizionarci. Di dove vogliamo andare. Sia che lo faremo attenendoci ai nostri modelli sia che svilupperemo modelli di business completamente nuovi.

Un’idea valida per uscire da questo tunnel è avviare un dibattito che si ponga, in prospettiva, ben oltre questa noiosa questione dell’aumento del debito. Ciò che ci vuole è l’intervento statale, che permetterà di ribaltare ancora una volta la situazione, trascinando con sé i giovani, sostenendoli nella loro ricerca del senso del lavoro e della vita, e dando anche un senso di appagamento alla generazione dei più anziani. Pazienza se sarà un percorso accidentato. Ciò che è possibile si realizzerà.

Formiche 209 


×

Iscriviti alla newsletter