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Partiti senza più alibi

La decisione della Corte costituzionale di dichiarare inammissibili le due richieste di referendum abrogativo della legge elettorale è giuridicamente ineccepibile. Una pronunzia di ammissibilità avrebbe sancito, in contrasto con l´art. 75 della Costituzione, una macroscopica torsione dell´istituto del referendum da abrogativo a propositivo perché gli elettori sarebbero stati chiamati a pronunciarsi non solo sulla eliminazione del Porcellum ma, contemporaneamente, sulla reintroduzione della legge Mattarella. Ciò sarebbe stato fonte di confusione e incertezza, in particolare per coloro che, pur contrari alla legge vigente, non sono favorevoli al ritorno al passato.
 
La sentenza della Corte è da accogliere con favore anche se si guarda ai suoi riflessi politici. Una pronunzia di ammissibilità, con la scadenza referendaria a primavera, più che costituire un utile elemento di pressione per l’approvazione di una nuova legge elettorale, avrebbe potuto inoculare elementi di tensione nei rapporti tra i partiti. Si sarebbe potuta creare una situazione di turbolenza, che, anche se non fosse giunta all’estremo di uno scioglimento anticipato per evitare il referendum, avrebbe sicuramente avuto ripercussioni sul governo e sul suo cammino parlamentare. Un pericolo che non avremmo potuto correre nell’attuale congiuntura internazionale.
 
L’inammissibilità del referendum ha un’altra conseguenza: essa sottrae alla classe politica ogni alibi per eventuali rinvii della revisione della legislazione elettorale e la pone con nettezza di fronte alle sue responsabilità. Sarà necessario mettere mano alla riforma anche per dare una risposta a quei numerosi cittadini, un milione e 200mila, che sottoscrivendo la richiesta di referendum hanno democraticamente manifestato la loro insofferenza nei confronti del Porcellum e non meritano di essere trascurati nelle loro aspettative.
Rimane il fatto che l’esigenza di un cambiamento appare indiscutibile. Molti esponenti politici già prima del giudizio della Corte costituzionale avevano dichiarato che, indipendentemente dalla vicenda del referendum, la legge elettorale avrebbe dovuto essere cambiata. È ora giunto il momento di porsi all’opera avendo tre precisi obiettivi.
 
Primo. Ridare fiato alla rappresentanza parlamentare consentendo agli elettori un potere di scelta degli eletti e superare l’attuale sistema che si risolve in una nomina delle segreterie di partito. Sotto il profilo tecnico, ciò è possibile ripristinando le preferenze o i collegi uninominali oppure con un sistema di liste bloccate particolarmente corte.
 
Secondo. Evitare sistemi che, di fatto, costringono i partiti ad alleanze eterogenee e acchiappatutto per poter prevalere nella competizione elettorale. Questo è stato il difetto delle leggi maggioritarie che abbiamo avuto, sia il Porcellum sia la legge Mattarella. Esse ci hanno dato un bipolarismo fallimentare per l’incapacità delle coalizioni elettorali vincenti di governare efficacemente.
 
Terzo. Evitare la frammentazione partitica mediante idonee clausole di sbarramento che possono essere esplicite (fissando una percentuale al di sotto della quale una lista non ha diritto a vedersi rappresentata in Parlamento) o implicite (per il naturale effetto di sistemi prevalentemente maggioritari che penalizzano i partiti minori).
 
I partiti hanno ora il modo di affrontare questo passo decisivo per la nostra democrazia senza la costrizione dei tempi di una consultazione referendaria. Essenziale non è fare presto, ma fare bene. E per fare bene si deve avere presente che, come l’esperienza di questi anni ci dimostra, non tutti i problemi si risolvono con la legge elettorale, ma è necessario un aggiornamento di alcune parti del sistema istituzionale. Bicameralismo, numero dei parlamentari, regolamenti parlamentari, poteri di indirizzo del presidente del Consiglio, rapporto tra Parlamento e governo sono tutti argomenti riguardo ai quali già da tempo, direi da troppo tempo, si riconosce la necessità di un intervento riformatore. A voler procedere con razionalità, si dovrebbe operare congiuntamente su tutti questi fronti e non separatamente sulla legge elettorale che deve essere la tessera di un più ampio mosaico di innovazioni nel quale si possa armonicamente collocare.
 
Questa è la strada indicata da politici di diversi partiti. Poiché si tratta di interventi che dovrebbero necessariamente toccare anche la Costituzione, i tempi sarebbero necessariamente lunghi. Il punto più complesso mi sembra quello di una riforma del Senato che non sarà prevedibilmente disposto a votare una modifica costituzionale che lo ridimensioni. Toccare la “camera alta” è sempre difficile e la storia della Francia ci insegna che grandi politici come Gambetta e De Gaulle caddero proprio per aver voluto riformare la seconda camera.
Che la riforma elettorale venga congiunta, o addirittura posposta, a riforme costituzionali e dei regolamenti parlamentari, non ritengo che i tempi della sua realizzazione potranno essere rapidi. Ci troviamo in una situazione di grande incertezza e fluidità politica: all’ombra del governo Monti potremmo assistere a un mutamento del sistema partitico e delle alleanze. Ciò in parte è già avvenuto e si sta sviluppando con la nascita del Terzo polo, la rottura tra Pdl e Lega, la frattura all’interno della Lega, nuove aggregazioni e scissioni sono possibili, così come nuove prospettive di alleanze o, al contrario, decisioni di qualche partito di presentarsi da solo alle prossime elezioni. Non credo che i partiti faranno una nuova legge elettorale prima che il quadro complessivo sia sufficientemente definito.
 
Prepariamoci quindi ad attendere un certo tempo per la nuova legge elettorale. Quel che è certo è che se i partiti non si dimostreranno in grado di riassestare l’apparato istituzionale mentre il governo tecnico affronta i problemi economici e sociali, assesteranno un duro colpo alla loro già pencolante credibilità.


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