In poco tempo il Paese ha trovato non solo un Presidente della Repubblica, ma anche un primo ministro. Il treno della rifondazione è partito. Sarà una battaglia dura, derubricata a battaglia interna, in politichese libanese, ma di lì passerà la possibilità di rifare del Libano il terzo polo tra gli opposti dispotismi arabi. Una via alla modernità araba si intravede, tra infinite resistenze ovviamente. La riflessione di Riccardo Cristiano
Dopo 26 mesi di vacanza istituzionale il Libano ha trovato nel breve volgere di poche ore non solo un Presidente della Repubblica, ma anche un Primo Ministro. Forse basta questo per capire perché i libanesi quasi increduli abbiano tirato proprio un sospiro di sollievo: da oltre due anni avevano uno Stato senza la sua suprema magistratura, il Presidente, e con un governo in carica solo per il disbrigo degli affari correnti. Ma questo è solo l’antipasto, siamo davanti all’inizio, possibile, di una rifondazione dello Stato, una rifondazione che non poteva che partire da tre svolte: l’abbandono della funzionalità a progetti stranieri, il ripristino di una politica nazionale di difesa non più appaltata a una milizia, la ricostruzione di un sistema politico non più paralizzato nelle sue derive claniche. Avviar tutto questo tra un venerdì e il successivo lunedì ha dell’incredibile. Cerchiamo di capire come sia stato possibile.
Facendo un breve sommario della storia del dopo-guerra civile libanese possiamo dire che questa è stata segnata dall’emergere della milizia khomeinista di Hezbollah, tanto funzionale al progetto di esportazione della rivoluzione teocratica iraniana da scrivere nella propria carta fondativa che riconosce nella guida suprema della rivoluzione, al tempo Khomeini (oggi Kahamenei) l’ultima autorità competente sulle sue decisioni. Il Libano ha concluso la sua guerra civile con due occupazioni: quella israeliana del sud del Libano, quella siriana sul resto del Paese. Hezbollah si è rapidamente impossessato della lotta armata contro l’invasore israeliano, appoggiandosi sull’altro occupante, la Siria. Armato dall’Iran, dopo il 2000, anno del ritiro israeliano, è rimasto in armi, a quel punto è diventato uno Stato nello Stato, con il suo esercito e i suoi alleati. Nel 2005 è avvenuta la svolta, l’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, l’uomo che ricostruendo il centro di Beirut ha ridato senso al Paese restituendogli il suo vero luogo e spazio fondativo, comune. Con quel delitto, e altri connessi, lo Stato nello Stato ha puntato a conquistare lo Stato che lo conteneva: da Stato nello Stato, Hezbollah ha puntato a diventare lui lo Stato. Ha eletto un Presidente alleato, ha imposto un primo ministro compiacente e ha sequestrato la politica nazionale di difesa, trasformandola nella sua politica militare al servizio degli interessi iraniani.
Nel 2020 il governo, che Hezbollah pilotava con politici alleati, ha scelto di dichiarare il default davanti alla crisi finanziaria che attanagliava il Paese, per sfidare gli istituti finanziari internazionali e non fare le riforme richieste. È stata una catastrofe, che rapidamente ha portato il tasso di cambio della lira libanese da quota 1500, fissa dal 1990, a quota 90mila nei confronti del dollaro. Per i libanesi ha significato la miseria, anche perché si è disposto anche il blocco illegale di tutti i conti correnti in valuta pregiata, che hanno tolto ai libanesi la loro principale fonte di sostentamento, le rimesse dei parenti emigrati. Intanto, impedita una legge di regolamentazione dei flussi monetari, la Banca Centrale ha consentito un’incredibile fuga di capitali delle banche e della “casta”, stimata in 14 miliardi, 8 dei quali del sistema bancario. E la Banca Centrale non era governata da Hezbollah, ma dalla “vestale della casta”, che ricopriva quell’incarico così importante da ben 30 anni. Di questo tutti dunque sono responsabili (e molti beneficiari). La crisi del sistema politico feudale libanese è nei mandati di arresto spiccati contro di lui per gravissimi reati finanziari da mezza Europa contro il governatore della Banca, per trent’anni. I più sostengono che il collasso finanziario del Paese sia stato causato dalla sua gestione.
Questo disfacimento istituzionale ha accompagnato l’emergere di Hezbollah come Stato sostitutivo dello Stato e culminato prima nella distruzione del porto di Beirut, i cui mandanti -chiaramente interni ad Hezbollah – sono risultati imperseguibili, e poi nella guerra con Israele, che ha distrutto il Libano che quell’avventura non voleva. La sconfitta dei miliziani del Partito di Dio ha messo in crisi anche l’ala politica del partito, che stenta ad accettare che deve convertirsi in un partito senza armi; con la sua agenda politica, le sue idee, ma in un contesto libanese, dentro lo Stato e non sopra di esso.
Arrivati a un passo dal 27 gennaio, quando il disarmo di Hezbollah dovrà essere verificabile per comportare anche quello necessario israeliano dal sud del Libano, Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita hanno imposto al Libano di eleggere il comandante dell’esercito alla Presidenza della Repubblica. Era il solo che poteva riuscire nell’impresa di non far fallire il cessate il fuoco e rendere effettivo il disarmo di Hezbollah, almeno quello iniziale, e il ritiro israeliano.
L’idea dei più era che, con una missione così ardua davanti, il generale Joseph Aoun avrebbe accettato di confermare alla guida del governo il premier compiacente con Hezbollah: da quella poltrona avrebbe potuto smussare gli angoli, complessi e molto rilevanti. Sarebbe stato forse un compromesso temporaneo, un governo può cadere anche dopo un anno, un anno e mezzo. Ma intanto si usciva dal pantano della guerra. E invece Joseph Aoun ha rilanciato: l’urgenza militare la gestirà lui, ma intanto un premier alleato gli serviva per affrontare l’altra urgenza, ricreare il sistema bancario, la funzionalità dello Stato, in un Paese ridotto alla fame. E così nel breve volgere di poche ore ha sorpreso tutti, facendo emergere la disponibilità del giurista liberale, Nawaf Salam, attuale Presidente della Corte Internazionale di Giustizia, a premier. Molti giornali libanesi dubitavano che l’Arabia Saudita, divenuta chiaramente il nuovo domino libanese, avrebbe accettato un giurista liberal, formato tra Harvard e la Sorbona, a primo ministro libanese. E invece in poche ore è successo anche questo. Il consenso dei gruppi parlamentari è stato enorme. Salam in poche ore è diventato premier incaricato.
Ora il Libano può uscire dalle secche di un sistema confessionale che si è trasformato in una casta immodificabile e separata nettamente dagli interessi del Paese? Non è detto. Le riforme indispensabili le dovranno votare loro, i beneficiari dell’attuale sistema. La maggioranza parlamentare dovrà approvare il suo esecutivo e questo sarà un nuovo ostacolo. I giochi della casta si vedranno qui, nel tentativo di imporre custodi dell’attuale sistema “patriarcale” nell’esecutivo. Ma intanto il treno della rifondazione è partito. Nawaf Salam difficilmente avrebbe lasciato l’Alta Corte per andare a servire gli interessi di bottega di un ceto politico autoreferente. Sarà una battaglia dura, derubricata a battaglia interna, in politichese libanese, ma di lì passerà la possibilità di rifare del Libano il terzo polo tra gli opposti dispotismi arabi. Una via alla modernità araba si intravede, tra infinite resistenze ovviamente.