La cultura e la tecnologia possono sembrare distanti tra loro, ma non lo sono affatto: ciò che ha nei fatti creato le condizioni per una così forte influenza statunitense, al di là degli aspetti militari, che hanno un ruolo sempre fondamentale nelle relazioni di potere tra le Nazioni, è stato l’investimento made in Usa su due elementi centrali: condizioni di vita migliori rispetto ad altre aree del mondo e possibilità di crescita. Scrive Stefano Monti
Tra le prime ripercussioni in ambito informatico registrate alla vigilia dell’avvio del mandato di Trump come neo-eletto presidente degli Usa, Meta, la società di Instagram e Facebook, ha dichiarato che sospenderà la funzione di fact-checking dai propri algoritmi.
Le persone al momento più “in vista” di questo nuovo mandato, e rispettivamente Trump e Musk, hanno un proprio social network a testa.
Mai come oggi, l’Europa ha la possibilità di “assolvere” ad un ruolo: quello di rappresentare il posto in cui è consentita la più estesa libertà d’espressione, sia da vincoli politici e legali, sia da vincoli economici e finanziari.
Oggi, l’Europa, se ne ha davvero la forza, può far riemergere una propria visione culturale. Ma è chiaro che non può farlo soltanto regolamentando ciò che in altri Paesi è già libero.
Lo deve fare anticipando le altre “potenze”, e iniziando ad investire, seriamente, in una propria visione di sviluppo. In una cultura che sia espressione quotidiana e non elitaria.
Incentivando la libera espressione informata e proponendo dinamiche volte a favorire la diffusione di informazioni indipendenti, sia sotto il profilo politico che sotto il profilo economico.
La sfida, la vera sfida, non è quella della competitività del vecchio continente a livello globale. Gli attuali scenari geopolitici sono “dati” e l’Europa non può certo immaginare di cambiare il proprio posizionamento internazionale nel breve periodo. La vera sfida è dunque la competitività che l’Europa può raggiungere nel futuro.
Nessuna delle grandi sfide del nostro continente è volta realmente ad affermare una visione futura dell’Unione. Le priorità per il 2024 – 2029 sono piuttosto volte ad arginare eventuali ulteriori perdite di influenza globale, o, nei casi più ambiziosi, a rafforzare il ruolo che l’Unione Europea riveste nelle dinamiche mondiali.
In tutti i casi, però, l’Unione Europea si muove cercando di ottenere i migliori risultati possibili, all’interno di un tracciato che tuttavia è stato sviluppato da altri. Come ottenere il massimo in una gara di rally partecipando con una vettura da Formula1.
Dalla corsa alla pseudo-indipendenza energetica, alla ricerca di terre rare sul proprio continente, dalla lotta per il cambiamento climatico sino allo sviluppo di regolamentazioni che riducano gli impatti dell’Intelligenza Artificiale, tutte queste grandi battaglie si basano su circostanze derivanti da input esterni.
L’Intelligenza Artificiale non è stata sviluppata in Europa. Il più importante know-how di estrazione e di lavorazione di terre rare non è in Europa. Secondo la classifica stilata da Our World in Data, nella lista dei primi 20 produttori di CO2 a livello globale, l’Europa compare con la Germania al nono posto e l’Italia al diciottesimo. Sommando insieme quanto prodotto da queste due nazioni si ottengono circa 910 milioni di tonnellate contro le 12 miliardi della sola Cina, 13 volte in più.
Il mondo in cui oggi competiamo è evidentemente plasmato da altre nazioni. Ed è giusto che sia così. L’Europa ha da tempo perso la propria posizione di leadership indiscusso a livello globale, e oggi persino gli Stati Uniti stanno vedendo erodersi la propria influenza, che tuttavia, come dimostrano anche i recenti sviluppi internazionali, è tutt’altro che scomparsa.
Ciò non sminuisce la rilevanza di tali priorità. È essenziale che l’Europa segua a concentrarsi sul proprio presente, ed è essenziale che nell’attuale scenario, persegua gli obiettivi che persegue.
Accanto ad essi, però, è altresì necessario si sviluppi un modello che a partire dalle caratteristiche storiche, culturali e sociali dell’Europa punti sul loro sviluppo, sulla loro esaltazione, e, per quanto possa apparire contro-intuitivo, tra tutte le risorse su cui l’Europa può realmente contare, quella che meglio si presta a questo tipo di ambizione è la cultura, se si esclude qualsivoglia accezione naif a questo tipo di affermazione, e si analizzano davvero le dinamiche economiche e finanziarie che ne sono alla base.
Si tratta di una riflessione insidiosa, che richiede e merita attenzione e precisione, e l’utilizzo di alcuni accorgimenti narrativi, al fine di schivare le insidie del pressapochismo da un lato e del regionalismo dall’altro.
Il primo di tali accorgimenti narrativi è calare la questione all’interno della vita quotidiana per fornire un perimetro di ragionamento condiviso. Queste riflessioni sono scritte utilizzando Microsoft Word, da un PC che, attraverso la connessione Wi-Fi potrà inviare via e-mail questo documento al fine di poterlo pubblicare online.
Probabilmente, saranno poi diffuse attraverso i principali social network al fine di incrementare il numero di potenziali lettori. Tutte le tecnologie utilizzate si basano su applicazioni che, a vario titolo, hanno avuto la loro diffusione grazie alla valenza economica degli Stati Uniti, sebbene molte di esse siano state sviluppate a partire da intuizioni, invenzioni o brevetti non statunitensi: dalle prime macchine calcolatrici (antesignane del PC), alle prime connessioni radio (alla base dell’attuale Wi-Fi).
Questa constatazione non cela in alcun modo un tentativo di affermazione della centralità europea; piuttosto individua un elemento centrale che è un passaggio importante sotto il profilo storico, che ha contribuito in modo rilevante all’affermazione degli Stati Uniti come potere globale.
Se durante la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno avuto modo di mostrare la propria potenza militare, ed affermarsi, al contempo, come un Paese di libertà mentre l’Europa era vittima dei totalitarismi, è tuttavia con il termine del conflitto, e con l’insieme di strategie che gli Usa hanno adottato nel tempo ad aver determinato il reale passaggio di consegne.
Si pensi, ad esempio, a come in un insieme di conferenze, ospitanti i temi più eterogenei possibili, la Rand Corporation (allora nota come Project Rand – finanziato dalla Difesa statunitense) non solo siano state poste le basi primordiali della cibernetica, che ha sviluppato alcuni dei fondamenti dell’intelligenza artificiale, ma anche gli elementi della robotica e della teoria della complessità e dei sistemi complessi che presumibilmente influenzeranno anche il nostro prossimo futuro.
Si trattava, senza dubbio, di ricerche di natura tecnologica, ma non solo: malgrado Rand sia un’abbreviazione di Research&Development, tra le prime conferenze della Rand parteciparono professionisti provenienti da molte discipline differenti e molti di essi, europei.
Si tratta di uno dei tantissimi esempi che è possibile fare per determinare due elementi fondamentali che hanno poi dato l’avvio ad una politica di influenza globale da parte degli Stati Uniti: una prospettiva di vita migliore rispetto ad altre nazioni e la disponibilità di importanti risorse per la ricerca, lo sviluppo e, in generale, la carriera.
Una dimensione che ancora oggi, mentre sempre più interpreti utilizzano il termine multipolarismo, è ancora incredibilmente visibile: la quasi totalità dei social network che utilizziamo deriva, in un modo o nell’altro, dall’economia statunitense (escluso TikTok di provenienza cinese).
Nel 2024, i primi dieci film per incassi internazionali hanno avuto tutti produzione o co-produzione statunitense. Tutte le big-tech (Google, Amazon, Apple, Microsoft, Meta) sono in USA.
La maggior parte delle aziende di streaming (Netflix, Prime, YouTube, Disney+) sono in USA, ad eccezione di Spotify, che è l’unica rappresentante Europea (Svezia). Le principali aziende di cloud computing sono in USA (ad eccezione di Alibaba Cloud, Cina). Le principali aziende di fintech e pagamenti online sono in USA (ad eccezione di Alypay, Cina).
Il mercato delle start-up degli USA è stato per anni, e continua ad essere, uno dei mercati più floridi a livello internazionale.
Le prime dieci aziende in Europa, secondo l’ultimo Fortune 500, che stila la classifica delle 500 imprese con maggiore fatturato, sono Volkswagen (automotive), Shell e TotalEnergies (settore petrolifero e gas naturale) Glencore (società mineraria e di scambio merci), BP (settore petrolifero ed energetico), Stellantis, BMW Group, Mercedes-Benz Group (automotive), Electricité de France (produzione e distribuzione energia), Banco Santander (servizi bancari).
Le prime dieci aziende in USA sono Walmart, Amazon, Apple, CSV Health (ramo sanitario), UnitedHealth Group (assicurativo) Berkshire Hathaway (holding finanziaria), McKesson, AmerisourceBergen (farmaceutica), Alphabet (Google, per intenderci), Exxon Mobil (settore estrattivo, petrolio e gas naturale).
È evidente come, negli USA, la dimensione dell’economia dei servizi abbia oggi un ruolo ben differente da quanto invece apprezzabile in Europa. Non sorprende, quindi, se guardando al futuro, la maggior parte delle start-up che raggiungono alti livelli di finanziamento proviene, o è basata, in territorio statunitense.
Il segmento start-up, in Europa, è stato notevolmente potenziato negli ultimi anni, ma per quanto si sia spinto, e lo si faccia ancora a tutti i livelli della filiera, verso un’economia ad alto valore innovativo, ma, come indicato anche dall’osservatorio Atomico, resta un gap sostanziale con il mercato statunitense: pur producendo più start-up di quanto si faccia negli Stati Uniti, la metà delle start-up europee cerca finanziamenti in USA.
La cultura e la tecnologia possono sembrare distanti tra loro, ma non lo sono affatto: ciò che ha nei fatti creato le condizioni per una così forte influenza statunitense, al di là degli aspetti militari, che hanno un ruolo sempre fondamentale nelle relazioni di potere tra le Nazioni, è stato l’investimento made in USA su due elementi centrali: condizioni di vita migliori rispetto ad altre aree del mondo (libertà, possibilità di entrare in relazione con persone provenienti da tutto il mondo, società relativamente giovane) e possibilità di crescita (elemento richiamato dallo stesso Presidente Joe Biden: “In nessun altro luogo del mondo un ragazzino balbuziente di umili origini proveniente da Scranton, Pennsylvania, e Claimont, Delaware, avrebbe potuto sedere un giorno dietro la Resolute Desk nello Studio Ovale come Presidente degli Stati Uniti). Si tratta di condizioni che, è questo il nesso essenziale da cogliere, se vogliamo che l’Europa trovi realmente una propria posizione unica nel futuro del pianeta, riguardano la “cultura” di un popolo, di una nazione, di un insieme di Stati.
Texas e Vermont presentano probabilmente differenze ancor più evidenti di quelle che si possono riscontrare comparando l’Italia e la Spagna. Le Hawaii e l’Alaska presentano differenze altrettanto significative.
A differenza di quanto accade negli Usa, le scelte politiche dei singoli Paesi che compongono l’Unione Europea ha una valenza più rilevante, e questo può rappresentare realmente un vantaggio, nell’identificazione di uno spazio “libero” all’interno dell’Europa, in cui le persone possano scegliere di trascorrere un momento della propria vita tenendo conto delle proprie esigenze, delle proprie priorità.
L’Europa come uno spazio libero, e libero dalle potenziali oligarchie finanziarie e tecnologiche cui Biden ha fatto riferimento alcuni giorni fa, può rappresentare davvero un elemento centrale per lo sviluppo dell’Unione.
Un’Unione che sappia coniugare le istanze che sono proprie di un mondo globale, con la capacità di relazionarsi, meglio di quanto facciano gli Usa, con culture distinte: dal suo est, con la Russia, al suo Sud, con l’Africa settentrionale e con il mondo arabo.
Mondi che nel tempo l’Europa ha avuto modo di conoscere, culture con cui sono stati condivisi importanti momenti di dialogo, e di scontro.
Questa eterogeneità, questa capacità di saper avviare un confronto con più culture può rappresentare un vantaggio competitivo rispetto alla cultura autoreferenziale degli Stati Uniti, così come può rappresentare un vantaggio competitivo un insieme di fattori, “soft”, che al di là delle differenze tra le varie nazioni sono comuni a tutti o quasi i Paesi Europei e che incidono in modo significativo sulla qualità della vita delle persone, e che sono sostanzialmente riconducibili alla longevità del continente, da cui traiamo oggi ricchezze culturali, gastronomiche, architettoniche.
Per quanto possano sembrare degli elementi meno rilevanti nel generale perseguimento di una strategia di sviluppo europeo, è importante considerare che queste risorse, questi asset, rappresentano un concreto vantaggio competitivo, perché sono tra le pochissime condizioni per le quali non basta il denaro.
Certo, però, questo non basta.
Perché alla qualità della vita, che conta, bisogna associare altri elementi per conquistare un posizionamento strategico: la promessa di una vita migliore che altrove, e la possibilità di poter essere e diventare ciò che si vuole.
Sono questi gli elementi su cui bisogna realmente lavorare. E non potendo sviluppare tali elementi sotto il profilo politico, è necessario iniziare a costruire sin da subito una strategia di natura economica.
Qualche tempo fa, l’ex-premier Draghi ha introdotto un tema che è fondamentale: far crescere il mercato interno. Incrementare i redditi per incrementare i consumi, certo. Ma non solo. Far crescere il mercato interno implica una visione espansionistica dell’Europa.
Di nuovo, quindi, si ritorna alla cultura come una dimensione prioritaria e all’economia come una sua forma strumentale. Incentivare lo sviluppo economico e finanziario delle imprese, per garantire a tutti i giovani, di tutti i Paesi, europei e non, un futuro ottimistico, è un elemento che affonda più nelle dimensioni culturali che in quelle economiche.
Sotto il profilo comportamentale, chi oggi ha un reddito di 100euro netti giorno, ma teme che tale reddito sia “precario”, “incerto”, e che tale reddito pertanto tenderà ad abbassarsi nel tempo, assumerà dei comportamenti più cauti e protettivi di quanto possa fare chi oggi ha un reddito di 80euro netti giorno, ma che crede che in futuro possano crescere.
L’Europa è anziana e cauta. Ma la cautela, che non deve in nessun modo svanire dal nostro tracciato comune, deve iniziare a far posto all’ottimismo.
E questo ottimismo necessita di una visione strategica e di finanziamenti ingenti, decennali, garantiti, che trasformino il nostro vecchio continente nella più grande idea di libertà e di sviluppo umano che sia presente oggi sul nostro Pianeta.
Ecco cosa significa porre la cultura come elemento centrale dello sviluppo comunitario: iniziare ad investire, e tanto, sulla capacità delle Pmi, dei giovani, delle start-up, non solo in ambito tecnologico e digitale, ma in tutte le altre dimensioni applicative che le nuove tecnologie presentano.
Farlo con una logica di investimento che non punti esclusivamente alla “scalabilità”, che nei fatti restringe l’attenzione soprattutto alla dimensione informatica, in cui lo stesso prodotto può essere venduto ad 1 o ad 1,000.000 di persone senza avere modifiche sostanziali in termini di costi fissi, ma anche con una logica di investimento di lungo periodo, creando degli strumenti finanziari che consentano agli investitori di trarre vantaggi a breve per le risorse che immettono nell’economia reale.
È necessario che l’Europa ritrovi quella dirompenza che oggi è imbrigliata in burocrazie e regolamenti obsoleti, ipertrofici, contraddittori. Quella dirompenza che ha fatto sì che le intuizioni di ragazzi divenissero imperi.
Si pensi alla moda: ogni suo prodotto può essere imitato, non il buon gusto. Si pensi al cibo: si può copiare ogni piatto, non la capacità di utilizzare prodotti di qualità provenienti da coltivazioni vicine, con la capacità, la voglia e la passione inventiva.
Si pensi alla letteratura, al cinema, ai videogames. Si pensi alla capacità di innovare che non è soltanto una questione informatica, e lo sarà sempre meno nel momento in cui le intelligenze artificiali saranno in grado di scrivere codice per gli umani.
Una politica di questo tipo richiede un investimento che obbliga l’intera Unione ad un impegno almeno decennale, ma che sicuramente consente di recuperare i costi dello spopolamento giovanile, della mancanza di risorse strutturali.
Ragionare in termini di percentuali di Pil, pur sapendo che contenere il debito ha senso solo se poi ci sono degli effetti di crescita, può aver senso se si ragiona in uno scenario che dura pochi anni. Se vogliamo che l’Europa cresca, dobbiamo definire cosa vogliamo diventi nei prossimi cento.