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L’Italia e Starlink, sgomberiamo il campo da fake news. L’analisi di Spagnulo

Nell’Italia del 2025 si scopre la strategicità delle telecomunicazioni satellitari, e molti sono in subbuglio perché l’americana SpaceX potrebbe fornire al nostro Paese connettività. Si discute sulle questioni tecniche e politiche del tema, spesso a sproposito, ma vale la pena provare a fare un po’ di chiarezza. L’analisi di Marcello Spagnulo

La recente dialettica scaturita dalle notizie secondo cui il governo italiano starebbe negoziando con SpaceX la fornitura di servizi di connettività via satellite, ha preso dimensioni mediatiche tali da farci scoprire che in Italia esiste una quantità di esperti spaziali che neanche la Nasa possiede. Qui invece, vorremmo discutere partendo da fatti incontrovertibili.

Oggi, nel mondo, gli operatori commerciali di telecomunicazioni spaziali che dispongono di una costellazione in orbita bassa con un congruo numero di satelliti già operativi, sono tre: SpaceX con Starlink, Eutelsat con Oneweb e Iridium. Quest’ultimo, però, fornisce connessioni a basso flusso di dati, poco più di settecento kilobit per secondo. Quindi, la banda larga è garantita solo dai primi due. 

Invece, gli operatori commerciali che offrono la connessione con satelliti geostazionari sono oltre una ventina, ma meno di dieci con copertura globale su tutto il pianeta. Un ristretto numero di Paesi, poi, tra cui l’Italia, dispone di satelliti geostazionari per comunicazioni militari. 

Circa i pro e i contro dei due sistemi si può semplificare dicendo che la vicinanza al pianeta riduce fortemente la latenza delle comunicazioni che è di circa trenta millisecondi per i satelliti in orbita bassa (Leo), rispetto ai seicento di quelli in orbita geostazionaria (Geo). E questo consente fluidità per la navigazione online, lo streaming e le videochiamate anche in condizioni disagiate come catastrofi naturali o scenari bellici. Però, per avere continuità di trasmissione, occorre un alto numero di satelliti nelle orbite basse. Qui risiede il fondamentale vantaggio di Starlink: ha già in orbita 6.800 satelliti, ne lancia a dozzine ogni mese e ne pianifica dodicimila entro un paio d’anni. Il concorrente Oneweb ha 650 satelliti in orbita, che costituiscono la sua costellazione di prima generazione.

Dallo scorso anno, SpaceX ha iniziato già a lanciare gli Starlink di seconda generazione, più grandi e più performanti degli attuali, e ha chiesto alla Federal communications commission, l’agenzia indipendente del governo degli Stati Uniti che regola tutte le comunicazioni Usa, siano esse via radio, televisione, filo, satellite o cavo, di poterne mettere in orbita trentamila. 

La costellazione Kuipers di Amazon, che punta ad avere 3500 satelliti in Leo entro pochi anni, ha già lanciato i primissimi prototipi sperimentali e, se il lanciatore New Glenn di Blue Origin avrà successo, probabilmente potrà nel medio termine far concorrenza a Starlink.

La costellazione europea Iris² (acronimo per Infrastructure for resilience, interconnectivity and security by satellite) prevede di lanciare i primi satelliti entro il 2030 e di completare la rete di circa trecento apparecchi dopo cinque anni, cioè dieci anni da oggi. Questi sono i fatti.

Poiché le performance più efficienti si ottengono dalle orbite basse, come mai nessuno ci ha mai pensato prima? In effetti negli anni Novanta aziende come Motorola e Space System Loral lanciarono delle costellazioni Leo per la telefonia mobile con costi faraonici, ma fallirono commercialmente perché il Sistema globale per comunicazioni mobili (Gsm) terrestre tri-band si diffuse più rapidamente e offrì prezzi più competitivi.

E così tutta l’industria mondiale e tutti gli operatori commerciali tradizionali continuarono a fare utili con i satelliti geostazionari senza pensare all’innovazione. D’altronde con tre satelliti a 36mila chilometri d’altezza si può coprire tutto il pianeta. Quindi, ne bastano una decina per avere una copertura ridondante e fare buoni affari.

Poi però è arrivato Elon Musk, il quale ha idealmente ripreso la geniale tecnologia di Motorola, ha miscelato il tutto con la miniaturizzazione elettronica e l’enorme capacità di calcolo dei moderni microchip e con una visione strategica fuori dal comune ha realizzato razzi riusabili e satelliti prodotti in massa come elettrodomestici.

Ora, veniamo a noi. Se l’Italia dispiega donne, uomini e mezzi in diversi teatri operativi internazionali (l’Istituto affari internazionali conta quaranta missioni estere nel solo 2024) le soluzioni per le comunicazioni strategiche sono due: o si dispone di una propria flotta di molti satelliti oppure ci si rivolge a terzi. E questi ultimi possono essere un altro governo oppure un operatore commerciale. Da qui non si sfugge.

A questo punto la scelta diventa politica, che però ovviamente è influenzata dall’offerta sul mercato e dalle esigenze interne, certo non dall’ideologia. E qui vorrei andare a un aspetto totalmente ignorato dal dibattito contingente.

Negli anni Novanta del secolo scorso, l’Italia possedeva un’industria che metteva in orbita due satelliti tecnologicamente avanzati, Italsat 1 e 2, che avevano una centrale di commutazione telefonica a bordo in grado di far parlare utenti su tutto il territorio nazionale trasmettendo ad alta frequenza, cioè con ampiezza di banda. Inoltre, il governo deteneva le quote dei grandi consorzi internazionali, Intelsat, Inmarsat e Eutelsat, che si formarono negli anni Settanta. Nella società francese Eutelsat, quella che oggi opera Oneweb, la quota italiana arrivò a superare il 20%.

In un mondo competitivo e sempre più affamato di telecomunicazioni il poter disporre di una presenza industriale qualificata e allo stesso tempo di un ruolo significativo nei consorzi satellitari avrebbe consentito al nostro Paese di sviluppare un settore economico ad alta innovazione e possibilità di crescita. E di avere forse oggi uno Starlink nazionale.

In pochissimo tempo nei primi anni Duemila, accadde qualcosa di completamente diverso. Venne decisa la privatizzazione di Telecom e furono vendute a Lehman Brothers tutte le partecipazioni azionarie nei consorzi satellitari internazionali. Poi, l’azienda manifatturiera fu fatta confluire in una joint venture con la francese Alcatel che ne deteneva la maggioranza. Da quel giorno il governo italiano è sempre stato acquirente da terzi di capacità satellitare, mentre i consorzi satellitari macinavano per anni margini operativi a due cifre.

Chi oggi grida al rischio di affidare a uno straniero le comunicazioni strategiche del Paese, dovrebbe invece chiedersi perché si è arrivati a questo punto e come si potrebbe provare a recuperare qualcosa di quella sovranità nazionale che avevamo nel settore spaziale e che è stata cancellata in pochissimo tempo.

 


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