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Come uscire dalla violenza? Il fattore religioso secondo Tonelli e Mannion

La globalizzazione, necessaria ma in forme profondamente diverse da quelle che appiattiscono tutti, ha favorito il revivalismo tradizionalista. È qui che si impone una riflessione nuova: come costruire la comunità dei diversi, non le comunità dei nostalgici. E per riuscirci leggere questo volume è un passo importantissimo. Riccardo Cristiano sul volume “Exiting Violence. The role of religion”, curato da Debora Tonelli e Gerard Michael J. Mannion

È proprio il momento giusto questo per la scelta della casa editrice De Gruyter di pubblicare il volume “Exiting Violence. The role of religion”, curato da Debora Tonelli e Gerard Michael J. Mannion, purtroppo scomparso recentemente. Basta il titolo per capirne l’urgenza. La forza della prefazione  di José Casanova pone davanti alla necessità di soffermarsi sulla parola  “violenza”: da molti mesi si legge soprattutto di aggressioni, reazioni, azioni preventive,  ritorsioni, mai di “violenza”. Ma se c’è la violenza, dall’altra ci dovrebbe essere la nonviolenza: papa Francesco, ha detto che occorrerebbe definire una “nonviolenza attiva” di cui ci ha spiegato l’urgenza nella sua autobiografia, come dicevo, citando un inviato di guerra per il quale i danni collaterali ormai sono le vittime militari. Se opponiamo alla violenza la pace allora dovremmo chiarire se parliamo di una pace eroica, di una pace dei miseri, o forse di una pace senza principi, dopo esserci allegramente massacrati per anni. Ma che cos’è la nonviolenza attiva? Per me non è più una irrazionale rinuncia alla difesa dei propri cari, la immagino come il rifiuto di criminalizzare l’altro come entità collettiva e come individuo, rifiuto di pogrom, torture, vendette, aggressioni contro comunità di inermi civili. Per questo ritengo che sarebbe indispensabile una nuova Norimberga, quella sui crimini di Assad che oggi abbiamo finalmente visto in faccia, in tutto il loro orrore, ma già archiviato. Questo è impossibile.

Così parto dal saggio sul pan islamismo che ci dice che come il suo nemico, il pan arabismo, ha inteso rispondere, diversamente, alla stessa esigenza: contrastare il colonialismo europeo. Il primo lo ha fatto vedendone la colonizzazione culturale, tramite lo Stato secolare, il secondo rispondendo a quella militare. Ad un’azione, dannosa per l’Occidente, rispondono due reazioni che hanno molto danneggiato gli arabi e i musulmani. Applico lo stesso metodo di interpretazione al diverbio tra credenti e secolarizzati qui in Occidente. Dopo essersi razionalizzata, arginando i millenarismi, come è arrivata una Chiesa cattolica che, contraria all’individualismo, ha trovato nel principale nemico dell’idea di società, il Reaganismo tatcheriano, un alleato possibile? Il fatto indica che questa Chiesa  può razionalmente adattarsi per interesse anche all’individualismo economico se le si riconosce una tutela normativa che ne preservi una rilevanza sociale.

Lo vediamo soprattutto in America, dove decolla con il benestare di molti vescovi quella che si potrebbe chiamare deportative democracy,  che come tale sarebbe anche un fallimento teologico. Ma anche qui questo sembra il prodotto dell’azione dell’altro polo: il marxismo è stato un millenarismo, derivato dal fatto che nel campo illuminato si è pensato che come si erano stabilite leggi fisiche universali valide ovunque, eliocentrismo e forza di gravità ad esempio, così le scienze umane ci avrebbero potuto portare a trovare la ricetta della felicità, ricetta ovunque e per tutti valida.

Siccome questa ricetta non esiste, anche qui si è rinunciato al millenarismo per imporre un individualismo che è sembrato davvero razionale: ognuno è padrone della sua vita come ritiene. Ma l’io sovrano è orfano, per i credenti come per i non credenti. E la sola cultura che oggi viene offerta è quella consumista. Il volume si sofferma a lungo e con profondità sul secolarismo: leggendo ho pensato che ad entrambi serva riconoscere che siamo ad un cambio d’epoca e in questo tornado servono strumenti d’intervento rapido, forse basandosi su escatologie progressive. Un’escatologia progressiva cristiana spiega il passato e il presente con il futuro, non il contrario; è Gesù che spiega Adamo ed Eva, non il contrario. Un’escatologia progressiva secolare non travestirebbe il secolarismo da nuova religione, ma luogo d’incontro più inclusivo, per l’oggi, sui fatti, nella consapevolezza delle nostre diversità. Un’escatologia progressiva saprebbe parlare ai credenti? Forse la risposta potrebbero facilitarla proprio i secolarizzati, perseguendo una  attribuzione anche alle persone di ciò che Josephine Quinn dice delle società: “La società umana non è una foresta piena di alberi, con sottoculture che si diramano da singoli tronchi. È più simile a un letto di fiori, che ha bisogno di un’impollinazione regolare per riseminare e crescere di nuovo.” Ad Ajaccio Francesco è stato il primo Papa, almeno che io sappia, a dire di noi secolarizzati che “non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”. Io lo ringrazio e dico che dovremmo cercare di dargli ragione non a parole, ma tra un minuto.

Leggendo questo volume, che ne parla con grande accuratezza, mi sono ricordato che già allora, quando da neo eletto Presidente andò al Cairo a pronunciare il suo famoso discorso, un inviato si chiese chi fosse Obama per dire quale sia il vero islam. Ma il volume pone anche un’altra domanda:  Michel Focault oggi ripeterebbe che Khomeini ha portato spiritualità nel governo del suo Paese? Il volume lo definisce “naive”; come dissentire? Ma comunque bisogna procedere e così per stabilire questo rapporto necessario occorre partire da lì, da quelle terre. Un grande intellettuale maronita, libanese, Samir Frangieh, era convinto che sono le lotte comuni quelle che consentono di creare i legami che fanno  uscire dalle gabbie comunitarie. Non mettere in crisi il vecchio ordine per crearne uno indifferenziato, che ci trasforma nel contabile frustrato del nostro vicino, ma legarsi per obiettivi comuni. Frangieh lottò per ottenere che gli accordi di pace prevedessero la possibilità, e la prevedono, di creare due Camere in Libano: una eletta come accade oggi,  con voto confessionale su quote prestabilite, per dare garanzie a tutte le comunità, e una eletta con metodo partitico, come si vota da noi, dando i diritti a tutti gli individui. La dimensione comunitaria e quella individuale coesistono, la prima offre garanzie, la seconda dà diritti. Dunque questa proposta fu inserita come “opzione” perché i siriani, che erano contrari, sapevano che da potenza occupante mai l’avrebbero concessa. Ma oggi il discorso torna di attualità, e rifà del Libano un laboratorio. Il nuovo premier libanese, poco citato in Occidente, ha detto che vuole attuare gli accordi di pace, come dicono tutti, ma ha aggiunto: “Anche ciò che non è stato attuato”. Mi sembra enorme. È un’idea che farebbe del Levante arabo, costituzionalmente complesso, un possibile trampolino di incontro tra comunità e individuo, che in termini diversi è anche un nostro problema. Non è la formula il punto, ma l’idea: garanzie alle comunità, diritti ai singoli. È noto che in arabo il termine individuo non esiste, il vocabolo usato letteralmente vuol dire “uno di una coppia”.

Tanti autori che si misurano con il dialogo interreligioso a tutti loro e alle loro tesi molto accurate e importanti, padre Paolo Dall’Oglio, che ha ancora molto da dire, ricorderebbe che lui preferiva parlare di dialogo religioso. Il dialogo religioso come l’ho capito io, che non sono un credente, preserva la diversità con il termine “dialogo”, ma avvicina gli interlocutori, persone che unite dal loro amore per Dio cercano non di diventare uguali, ma amiche, in virtù di questa relazione profonda, che ora li accomuna, non li oppone. In questo modo il dialogo diviene un cantiere, nel quale si tolgono pietre d’inciampo per l’altro, nella convinzione, come disse Rumi, che in montagna esistono diversi sentieri per arrivare in vetta, ma una volta che vi si è giunti il sentiero seguito diventa molto meno importante rispetto all’esito, l’essere in cima. A mio avviso la globalizzazione, necessaria ma in forme profondamente diverse da queste che appiattiscono tutti, ha favorito il revivalismo tradizionalista. È qui che si impone una riflessione nuova: come costruire la comunità dei diversi, non queste comunità dei nostalgici. E per riuscirci leggere questo volume è un passo importantissimo.

 

 

 


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